Pillole di Calcio – Eroe al Maradona e a Wembley: Jude Bellingham vuole conquistare il mondo, sulle orme di Sir Bobby Charlton

Alzi la mano chi crede che quest’ultima pausa delle Nazionali non sia stata la più tormentata, almeno degli ultimi dieci anni. A quel velo di tensione dovuta alle condizioni dei calciatori reduci dagli impegni per il mondo se ne è aggiunto uno insolito (ma non troppo) sulle abitudini degli stessi fuori dal rettangolo di gioco. Doping, scommesse, combine per truccare partite di calcio? Sì, si è parlato di questo in questi ultimi quindici giorni e non di un pallone che rotola. Piuttosto strano dover raccontare di agenti di polizia al campo di allenamento dell’Italia a Coverciano, o di un tale calciatore che soffrirebbe di ludopatia. Ecco, tutto questo è successo e ha, inevitabilmente, prodotto dello scoramento in molti appassionati italiani, figurarsi in un momento storico nel quale il movimento azzurro del pallone “si è giocato” (appunto) la sua credibilità anche nel rettangolo verde.

Eppure questi quindici giorni si prospettavano quantomeno evocativi: l’Italia campione d’Europa in carica tornava in quella Wembley che l’ha incoronata lo scorso 11 luglio 2021, e lo faceva con un condottiero nuovo, un produttore naturale di energia positiva e di saggezza tattica come Luciano Spalletti, uno che gioca e fa giocare bene al calcio anche nella burrasca, insomma: la bolla di vetro perfetta per dei ragazzi nell’occhio del ciclone. Nel tempio del calcio inglese, la nazionale italiana è durata un tempo, cadendo poi sotto i colpi del miglior cannoniere inglese e di un ventenne che potrebbe star riscrivendo un capitolo nuovo della storia di questo sport.

Quanto è forte Jude Bellingham? Tanto. Ma dato che non ci piace essere ovvi, specifichiamo il significato di “forte”, per la serie “esistono le categorie”. Stiamo parlando di un giovane del 2003 che, in poco meno di tre mesi, ha conquistato il tempio sacro del Real Madrid del Santiago Bernabeu indossando senza pressioni la numero 5 che fu di Zinedine Zidane, che a tratti ha “maradoneggiato” nello stadio intitolato a Diego Armando Maradona e che infine, in ordine cronologico, ha dettato legge nell’altro tempio del calcio come Wembley senza bisogno di entrare nel tabellino del 3-1 tra Inghilterra e Italia. Jude è Forte, ripetiamo, ma non come un normale calciatore che arriva a giocare a livelli alti come Serie A, Liga, Premier o Champions, no? Jude, a soli vent’anni, queste competizioni le deciderebbe. Bellingham è diventato, quest’anno, l’ago della bilancia della stagione del Real Madrid, che la scorsa estate ha pagato 100 milioni di euro al Borussia Dortmund per assicurarselo e per affidarlo a Carlo Ancelotti, uno che di campioni se ne intende. L’ex tecnico del Napoli ne ha fatto, così, il nuovo Karim Benzema, ma come? Bellingham non è un centrocampista? Sì, ma fino ad un certo punto. Alzi la mano, infatti, chi ha il coraggio di rinchiudere questo demone (in senso buono, s’intende) che sprizza calcio da ogni poro, in una sola categoria come quella di “centrocampista”. La sua posizione, per essere fedeli a ciò che sta dicendo la stagione, è l’ultimo terzo di campo: da mezz’ala a prima punta alla Karim the Dream, passando per il trequartista alle spalle di Rodrygo e Vincius, questi i ruoli di Bellingham nel suo feudo madrileno. Ancelotti gli ha affidato le chiavi e il cavalier servente Jude lo ha ripagato, fino ad ora (26 ottobre), con 11 reti e tre assist tra campionato e Champions League, tra cui spicca il gol al Maradona, dopo la serpentina alla Roberto Baggio o alla Lazar Samardzic (senza essere blasfemi), protagonisti con gol da capogiro ma nella porta opposta dello stadio di Fuorigrotta, nel 1989 e nel 2023.

Grande tra i grandi, il piccolo Jude quest’estate ha respinto le concrete lusinghe della Premier League per stagliarsi già in quel firmamento chiamato Real Madrid, come non ha fatto ad esempio Erling Haaland che ha preferito il City di Guardiola ad un Real che di certo non avrà fatto mancare gli ammiccamenti all’anch’essa giovane stella norvegese. Se ne può discutere, ma la scelta di militare nel club più grande della storia del calcio senza fare un passaggio ulteriormente intermedio dopo Dortmund, può elevare Bellingham a rappresentante più alto – ripetiamo, a soli vent’anni – del movimento del football di Sua Maestà, che può vantare uno dei suoi baronetti tra i Galacticos in maglia bianca come furono Laurie Cunningham, Steve McManaman, Michael Owen, Jonathan Woodgate e soprattutto David Beckham. Tra questi, uno solo ha sollevato il Pallone d’Oro, vale a dire Micheal Owen, e per giunta con la maglia del Liverpool, tre anni prima di accasarsi al Bernabeu. In generale, Madrid non è stato l’approdo della consacrazione per nessuno di questi sei calciatori, non dal punto di vista calcistico, specie se ci riferiamo a Beckham che, il meglio lo ha dato al Manchester United. A proposito di United: chi, di sicuro, nel Real Madrid avrebbe riscritto un’altra pagina di storia del calcio, di sicuro più ricca, è senz’altro Sir Bobby Charlton, scomparso lo scorso 21 ottobre 2023, dopo aver speso una vita a nobilitare l’idea di Red Devils e di English Football, in giro per i campi, in giro per il mondo. Al contrario di molti altri geni del calcio come lui, e non ce ne sono poi così tanti, Sir Bobby Charlton ha vestito solo maglie di calcio inglese, tra le quali spicca quella del Machester United, vestita dal 1956 fino al 1973 e con la quale ha vinto una Coppa dei Campioni nel 1968 contro il Benfica di un altro semidio del pallone come Eusebio. La storia di Sir Bobby è la storia di un uomo che ha toccato il cielo con un dito, che lo ha fatto toccare ai compagni di squadra degli spogliatoi in cui è stato ma che ha dovuto farlo lottando ogni giorno e su ogni campo con l’idea della morte come altra maglia sotto la divisa sportiva. Ebbene sì, perché dopo essere sopravvissuto al disastro aereo di Berlino che nel 1958 ha decimato la squadra dello United, Charlton ha accompagnato, con un vuoto nel cuore e un’energia nuova nel corpo, sia il suo Manchester che la sua Inghilterra sul tetto del mondo. A soli nove anni da un altro disastro come quello che nel ‘49 ha distrutto in toto il sogno del Grande Torino, l’aereo che trasportava lo United dei Busby Babes – i ragazzi allenati da Matt Busby – si è schiantato a Monaco, durante il viaggio di ritorno da Belgrado, in seguito ad una sfida di Coppa dei Campioni, con ventitré dei quarantaquattro passeggeri tragicamente scomparsi. Otto anni dopo, quel Busby Babe di nome Bobby porterà l’Inghilterra a laurearsi campione del Mondo, in una controversa finale contro la Germania vinta per 4-2.

Nel segno del più grande tra i calciatori inglesi, e sotto una luce che mai realmente si spegnerà, Jude Bellingham ha già da tempo cominciato a riscrivere la storia calcistica del suo paese, le cui uniche gioie risalgono ad un calcio oramai antico e a gesta antiche ma indelebili. In un’epoca che vede Messi e Cristiano Ronaldo congedarsi dal palcoscenico del calcio “vero”, il 2003 inglese può recitare davvero la parte del protagonista e accompagnare la sua Inghilterra, che già si è slanciata nel futuro, in una dimensione senza tempo, come solo Sir Bobby Charlton ci era riuscito prima.

Fonte foto: pagina ufficiale Twitter Nazionale inglese