Pillole di Calcio – Il Messico, i Mondiali e Salerno. Il mito di Ochoa nella realtà del nostro campionato

The Chaaaampiooons … Ci siamo! Stasera ricominceremo ad ascoltare la musichetta della più grande competizione per club con Benfica-Inter e Manchester City-Bayern Monaco ad inaugurare i quarti di finale di Coppa dei Campioni, con il derby italiano tra Milan e Napoli in programma, invece, domani sera.
A proposito di coppe e di campioni: senza dubbio, la competizione più splendente di questo sport che, per l’appunto, rappresenta la vetrina più illustre per ogni singolo calciatore che vi prende parte, è il Mondiale. La storia del calcio è scandita da questo “rituale a cadenza pluriennale”, in occasione del quale si tira una linea e si prende atto dei cambiamenti nel modo di pensare e di giocare. La tattica, il racconto, la fruizione del prodotto “calcio”: ogni campionato del mondo porta in dote qualcosa di nuovo, avanguardie sempre diverse che si migliorano di anno dopo anno. Cambiano le sedi, i palloni, gli allenatori (e ci mancherebbe altro!) e poi c’è qualcosa che persiste perché, come nei veri e propri riti a cadenza pluriennale, c’è un elemento che resiste al tempo e si ripropone nello spettacolo del “nuovo”. Francisco Guillermo Ochoa Magaña da Guadalajara è questo elemento, nella liturgia quadriennale del più grande torneo di questo sport.

Nella storia del calcio, sono sette giocatori ad aver preso parte a cinque spedizioni mondiali. Ci sono Cristiano Ronaldo, Gigi Buffon, Leo Messi e ben quattro messicani, ovvero: Antonio Carbajal, Rafa Marquez, Andres Guardado e Guillermo Ochoa, per gli amici Memo.
Quella messicana è una terra misteriosa, ammantata da un alone mistico, forse dovuto alla straordinaria altura che avvicina quei territori e chi li abita al Sole e a chissà quale altra entità. Il Messico, forse più di ogni altra terra, ha conosciuto la magia del fùtbol, quella più irradiante, non perché l’abbia partorita direttamente, piuttosto perché l’ha ospitata. Tra i calciatori della nazionale Tricolor quello più grande, probabilmente, è Hugo Sanchez, centravanti degli anni ’80 e ’90, che detiene il record per aver giocato in tutte e tre le squadre di Madrid, ovvero Real, Atletico e Rayo Vallecano. Con i Blancos ha vinto cinque Liga di fila, una Coppa di Spagna e una Coppa UEFA nell’85/86, mettendo a segno, in totale 207 reti. La magia del Messico è racchiusa nei monti e nel clima torrido e, se parliamo di calcio, è più facile parlare di magia importata. Nello stadio centramericano sono stati disputati due mondiali in sedici anni, forse un evento unico nella storia di questa competizione. Nel 1970 fu Pelè, con il suo Brasile dei cinque numeri 10 ad aggiudicarsi la Coppa Rimet ai danni dell’Italia, battendola in finale per 4-1. Sedici anni dopo, un’altra divinità, ovvero Diego Armando Maradona prese la scena dello stadio Azteca di Città del Messico, ascendendo al cielo, cosa neanche troppo complicata data l’altitudine del complesso sportivo, di 2220 metri sul livello del mare. L’Azteca non è per tutti (per l’altura e l’atmosfera rarefatta), non lo è il Messico, non lo è il Campionato del Mondo. C’è chi di Mondiali ne ha giocati cinque, da leggenda del Club America, squadra messicana il cui stadio indovinate un po’ qual è!

Immaginate di esordire con la squadra dei vostri sogni, nello stadio che più di ogni altro è vicino al Sole, alle ore 13:00 di un anormale 13 giugno. Siamo nel 2004, un giovane portiere di nome Guillermo e di cognome Ochoa corona il suo sogno. Non da sogno, tuttavia, è la sua prima apparizione nel calcio dei grandi con due gol presi sui primi tre tiri della gara nel suo specchio. I crismi del predestinato, però, ci sono tutti e non solo come uomo di calcio. Su di lui, infatti, mette gli occhi la Televisa, la più grande emittente radio-televisiva Messicana, nonché azionista di maggioranza proprio del Club America, la squadra di Memo. Il giovane portiere, oltre a diventare titolare in campo a difesa dei pali, diventa uomo immagine negli schermi delle case del Paese, in qualche cameo pubblicitario oppure di qualche telenovela strappalacrime, con motti motivazionali del tipo: Non c’è nessuno meglio di me. Se non ci credi, chiedi ad AguirreJavier Aguirre è il CT della Nazionale Tricolor nel biennio 2009-2010.
Appunto, la Nazionale. Se noi calciofili d’oltreoceano conosciamo e ammiriamo le gesta di Memo Ochoa è perché, per la stra-grande maggioranza, gliele abbiamo viste fare con la Nazionale ogni quattro anni, a partire dall’estate brasiliana dei Mondiali 2014. Sì perché pur essendo stato aggregato agli Aztecas per le edizioni 2006 e 2010, Ochoa non ha messo piede in campo in nessuna partita di questi due mondiali.
Nel 2014, quando con il suo Messico sbarca in Brasile, Guillermo ha già conosciuto il calcio europeo, essendosi staccato dalle dinamiche commerciali, piuttosto che calcistiche, con la Televisa e il Club America. Nel 2011, solo un’intossicazione alimentare, fatta passare per “doping” da qualche addetto ai lavori tra l’incompetenza e la malafede, fa saltare il passaggio ormai fatto alla nascente squadra di stelle del PSG, che di stelle continua a raccattarne ancora oggi ma senza successo. Il suo destino europeo, tuttavia, è la Francia o meglio, la Corsica e l’Ajaccio, di cui diviene uomo immagine, top-player fino alla retrocessione dei Corsi, con conseguente addio a parametro zero nell’estate dei mondiali. Da svincolato di lusso, Ochoa diventa eroe nel cuore di chi ama questo sport, meno dei brasiliani, padroni di casa di quel Mondiale, bloccati sullo 0-0, nella seconda partita del loro girone, dalle parate di questo semisconosciuto che ai più fa venire in mente Gordon Banks, portiere dell’Inghilterra che, a Messico ’70, compì forse la parata più bella della storia del calcio, su un colpo di testa di Pelè. In principio fu il Brasile, quattro anni dopo fu la Germania campione del mondo a sbattere contro l’incubo del portiere messicano e di un altro semisconosciuto di nome Hirving Lozano, che segnò l’unico gol della gara, finita 1-0 per El Tricolor. Di nuovo in auge e più in forma che mai, anche a 37 anni suonati, Memo Ochoa si presenta agli arabi del Qatar in tutto il suo splendore, come se avesse passato i precedenti 4 anni a prepararsi per il più grande torneo del calcio. E come dargli torto se, pronti via, ad inchinarsi a lui è il totem del calcio mondiale Robert Lewandowski, che si vede parare un rigore nella partita inaugurale della sua Polonia?

Ochoa dalle undici dita. Lo hanno chiamato persino così, alimentando la mitopoiesi di un uomo che pare vivere nell’ombra del mistero, per poi affiorare ogni quattro anni, in occasione dei Mondiali. In un articolo pubblicato su Ultimouomo.com del 2 agosto del 2018, Fabrizio Gabrielli – uno che di campioni senza tempo e senza senso se ne intende e ne parla con una maestria che non è da tutti – lo ha definito il portiere più forte del mondo ogni quattro anni, tradendo, in questo titolo, una punta di amarezza per il tempo che passa e per la brevità dell’attimo in cui questo “prodigio” delle alture azteche ci appare, per poi scomparire, per andare chissà dove. Come il 29 di febbraio, Memo Ochoa è riapparso a tutto il mondo, ancora una volta a distanza di quattro anni ma stavolta, il tempo ha deciso di dare una sferzata extra-ordinaria agli eventi: Memo non riapparirà (solo) nel 2026, guarda caso nei Mondiali che dopo quarant’anni ritorneranno in Messico, bensì ogni domenica, sui campi di Serie A, con la divisa della Salernitana. Ebbene sì: il 23 dicembre, cinque giorni dopo la finale dei Mondiali, il club granata ufficializza l’acquisto del portiere messicano, svincolatosi dopo la seconda parentesi con il suo Club America.
Dopo una vita passata nella semi-oscurità dei riflettori, Ochoa non si smentisce, continuando a rinforzare squadre non di primissimo piano in Europa ma, per lo meno, per gli italiani, Memo non sarà più solamente il portiere dei Mondiali. Qui si pone un interrogativo: e se, vedendolo giocare ogni sette giorni, la magia del super portiere finisse? E se l’immagine di Memo fosse, appunto, “l’immagine di Memo” solo perché la rispolveriamo ogni quattro anni? Abituarci alla sua presenza ne depotenzierebbe l’impatto nel nostro immaginario? Al momento la risposta è No. Memo Ochoa è arrivato a Salerno come sostituto dell’infortunato Sepe, entrando sin da subito in campo come titolare contro i campioni d’Italia del Milan e raccogliendo due palloni in fondo alla rete, a fronte di almeno il doppio parati magistralmente, come lui sa fare. Il suo approdo in granata ha coinciso con il momento più duro della squadra, con il doppio esonero di Davide Nicola, orientato a ritornare su Sepe, prima di lasciare definitivamente la squadra per far posto a Paulo Sousa. Con il tecnico portoghese Salerno è ufficialmente ai piedi del Memo che, invece di far scadere il suo mito, lo ha rafforzato replicando, settimana dopo settimana, le prove dei Mondiali. Ultima, in ordine di tempo, la masterclass fornita all’Arechi nella sfida contro l’Inter dello scorso venerdì, conclusasi per 1-1, nella quale il messicano ha fatto il record di dieci parate in questo campionato, al pari di Ionut Radu, in Roma-Cremonese dello scorso agosto.

Alla soglia dei 38 anni, il Dio del calcio ha donato ad un paese impoverito come l’Italia un uomo misterioso, come il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. I due, infatti, rappresentano lo straniero felice in un mondo triste, piccolo e quindi inversamente proporzionale alla sua grandezza, a dir poco leggendaria, con una moltitudine di opportunisti e di servi in malafede a speculare fino all’ultimo e qualcuno, invece, appassionato del bello e dell’autentico, a riconoscerne il valore, di uomo, di atleta, di simbolo, al di là di qualsiasi gesto tecnico.

Non sappiamo quando Ochoa scriverà la parola fine alla sua splendida carriera, di certo, proprio come Gatsby: “Si era gettato in quella storia con una passione creativa, accrescendola continuamente, ornandola con tutte le piume più colorate trovate sulla sua strada.”

Fonte foto: pagina ufficiale Instagram Guillermo Ochoa