La storia ci insegna che è difficile trovare elementi di assoluta novità, in ambito politico, strategico-militare, a livello di speculazioni filosofico-religiose e, dunque, anche nello sport e quindi nel calcio.
In questa modernità del pallone che potremmo, per convenzione, far partire dagli anni Settanta inoltrati – e quindi dall’epoca della Grande Olanda di Michels e Cruijff – non esistono grandi squadre e grandi interpreti del gioco che non si muovano nell’alveo di un percorso ideologico già determinato. Nel nome di quella Olanda vivono e si sviluppano, quasi di pari passo, le filosofie di tutte le selezioni nazionali della Spagna e anche quella del Barcellona, perché lì vi ha messo radici ideologiche proprio il numero 14 più grande di tutti i tempi: Johann Cruijff. E però, volessimo essere più precisi – e ci proviamo – anche l’arancia meccanica olandese e l’Ajax si plasmano sulla base di onde provenienti dal Sud America e nate, a loro volta, in Argentina, a Buenos Aires, dove tra il 1941 e il 1946, la cosiddetta Máquina (macchina) del River Plate dominò vincendo trofei con uno stile nuovo, proiettato nel futuro.
Di cosa è fatta la palla? Cuoio!
Da dove viene il cuoio? Dalla mucca!
Cosa mangia la mucca? Erba!
Perciò, la palla deve andare sempre rasoterra.
Negli anni in cui la Máquina faceva il suo “strano”, futuristico e redditizio calcio in Sudamerica, in Italia nasce e si afferma la leggenda del Grande Torino. In un Paese devastato dalla guerra, con i neo-nati movimenti di resistenza, la linea gotica a dividere nord e sud e nazisti e alleati ad occupare tutte le grandi città, il calcio non si ferma.
Sotto la sapiente guida tecnica di tecnici come Janni, Ferrero, Sperone, Copernico e, infine Ernest Egri Erbstein – ungherese con un passato da allenatore della Nocerina – il Torino vince cinque scudetti consecutivi, diventando anche la prima squadra a fare la doppietta di campionato e coppa nazionale vinti nella stessa stagione (42’-’43). Tra gli interpreti in campo di quella leggendaria squadra ci sono: Valentino Mazzola, mezz’ala sinistra da ben 130 reti, il portiere Valerio Bacigalupo, i terzini Aldo Ballarin, Virgilio Maroso, lo stopper Mario Rigamonti, i centrocampisti Giuseppe Grezar, Eusebio Castigliano, Ezio Loik, le ali Romeo Menti, Franco Ossola, il centravanti Guglielmo Gabetto, autore di 164 reti.
Teatro delle grandi gesta di questa squadra è lo stadio Filadelfia, meglio noto come “Fossa dei Leoni”, in cui è solito assistere al classico “quarto d’ora granata”, ovverosia un passaggio repentino da una fase addormentata della gara ad una tambureggiante nella quale i calciatori granata prendevano ad invadere l’area avversaria, sommergendo di tiri e di gol il portiere.
Il 30 aprile, dopo essersi assicurati la vittoria del campionato ’48-’49, sul campo di San Siro contro l’Inter, la squadra granata è chiamata a disputare un’amichevole a Lisbona contro il Benfica, in onore del calciatore lusitano Francisco Ferreira, in presunte difficoltà economiche. La gara in Portogallo si conclude con un 4-1 a favore dei padroni di casa, ma il Toro è pronto a tornare a casa, dove lo attende la grande festa scudetto. È il 4 maggio del ’49, sono le 17:04 e, in un contesto meteorologico e, quindi di visuale, proibitivo, l’aereo del Grande Torino si schianta contro la Basilica sulla collina di Superga a Torino, non lasciando scampo, a nessuno dei passeggeri, tra calciatori, addetti ai lavori di club, stampa e compagnia aerea. Quel giorno, il cielo pose fine alla più grande squadra di calcio che l’Italia abbia mai conosciuto, ancor prima della Grande Inter, del Milan di Sacchi, del Napoli di Maradona e delle macchine d’oltralpe.
Il destino – che non ha tempo, spazio o bandiere se non quelle del Bello, Vero e Giusto – ha deciso di porre in un 4 maggio di settantaquattro anni dopo, un altro evento spartiacque del calcio italiano, ovvero la sublimazione della grandezza di un altro gruppo: quello di Luciano Spalletti. Nello stadio stadio Friuli di Udine, per l’occasione con un’anima tutta azzurra, il Napoli ha riscritto la storia con il suo uomo simbolo, Victor Osimhen, a siglare il gol dell’1-1 che ha immortalizzato un intero spogliatoio.
Solo venti giorni dopo, qualche chilometro più a nord, oltremanica nello specifico e, ancor meglio, in un altro spogliatoio, quello dello stadio Amex di Brighton, una vecchia conoscenza proprio del Napoli, Roberto De Zerbi, pronuncia queste parole, rivolto ai suoi ragazzi:
“Bravi. Sono senza parole. Mi avete emozionato tutto l’anno. Ho una paura sola. Ho paura che finisca. Troppo bene siam stati e quando sei in un sogno hai paura che possa finire ma non per la partita ma per questo (indicando il cuore, ndr)”.
Il sogno si accompagna per natura all’imminenza della sua fine, persino nel momento di massima felicità, dove il picco è anche il preludio ad una imminente discesa. Chi decide che tutto ciò debba avvenire anche nel calcio o negli sport in generale? C’è qualche legge scientifica che ci dice che Jacobs non sarà più oro nei 100 metri, o che il Brighton di Roberto de Zerbi non possa più fare quel percorso in Premier League – sesto con 62 punti e qualificato in EL per la prima volta nella storia –, o che Napoli non possa fare la doppietta vincendo di nuovo lo scudetto un anno dopo? Assolutamente nessuno, altrimenti non avremmo i cosiddetti “cicli” del calcio, che si alimentano con la progettazione e con le persone giuste nei posti giusti e con i cuori degli interpreti a battere all’unisono. Stando al discorso dell’ex mister di Benevento e Sassuolo, se manca quest’ultima componente, il sogno è un po’ più vicino a finire.
Diciamo subito che il Brighton di De Zerbi, dopo otto giornate di Premier, è sempre sesto, con sedici punti, frutto di cinque vittorie e un pareggio, peraltro contro il Liverpool. Sesta posizione ottenuta, però, partendo tredicesimi, perché è questa la casella nella classifica dei monte-ingaggi, nel campionato più ricco del pianeta. Evidentemente il cuore, in quel di Brighton, è rimasto intatto e le partite lo rivelano. E a Napoli? Premettiamo doverosamente che l’ultima cosa che a Napoli smetterà di vivere sarà il cuore del popolo, che mai cesserà di accompagnare la sua squadra. È innegabile, però, che qualcosa, nelle partite ha smesso di funzionare a meraviglia (per usare un eufemismo) rispetto ai fasti della scorsa stagione. Il tecnico Rudi Garcia, a tal proposito, è il volto di un nuovo capitolo calcistico, ad oggi meno avvincente del precedente, e meno incline a generare sogni ad occhi aperti. Ciò vuol dire che il sogno del grande Napoli scudettato è già finito? Per niente. Gli azzurri giocheranno per almeno altre quaranta gare – tra campionato e coppe – con un simbolo sul petto chiamato tricolore e non è un sogno bensì un fatto concreto. Del resto cos’è stato il “miracolo” dell’anno scorso se non un lavoro concreto svolto nel migliore dei modi? Tornerà quel miracolo? No, ma non è detto che non si possa trovare un altro modo di fare bene le cose. Qual è il migliore per rimettere in sintonia i cuori dell’unico spogliatoio in Italia che, ad oggi, può fregiarsi di avere lo scudetto sulla maglia? La risposta, e non è così scontato, dovranno trovarla quelle stesse persone scelte e messe nei rispettivi posti di comando, a patto che questi posti di comando siano giusti per quelle persone e viceversa. Non c’è altra strada.
Foto: SSC Napoli