Pillole di Calcio – Il miglior Napoli nelle mani di Walter Mazzarri: perché per rimanere grandi c’è bisogno di essere credibili

Sono passati ormai due anni. Era un soleggiato pomeriggio del 20 ottobre del 2021 e al campo Santa Maria delle Grazie di Marigliano si giocava uno storico derby dell’agro nolano tra, appunto, Mariglianese e Nola. Quella sfida finì 5-2 per i padroni di casa, forti del sostegno del pubblico ma, soprattutto, della superiorità numerica, già dal ventesimo minuto del primo tempo. La cosa più importante non è la partita in sé, bensì l’incontro che feci nel pre-gara con Fabiano Santacroce, vecchia conoscenza della Serie A e del Napoli negli anni da neo-promosso dell’era De Laurentiis. Santacroce era lì in quanto procuratore ma si fermò volentieri per qualche istante di chiacchiera, soprattutto sui suoi vecchi tempi in azzurro. Ricordo benissimo di aver fatto con lui un parallelo tra il Napoli attuale – ovvero nelle prime settimane di Spalletti in cui gli azzurri vinsero in serie tutte le partite di campionato – e la sua squadra operaia e battagliera che incarnava lo spirito di un popolo e che, per certi versi, secondo me, si poteva rivedere in quella di fine 2021. La cosa più clamorosa, che lasciò sorpreso me e chi mi stava accanto, fu la frase con cui Fabiano ci lasciò: “Il miglior Napoli è stato quello di Donadoni”. Il tono era serio, garantisco. Come garantisco di aver preso altrettanto sul serio quella frase che sembrerebbe anti-storica e buttata lì ma, se non altro, viene dall’interno di quello spogliatoio che poi avrebbe delegittimato l’ex campione del Milan che era sulla panchina. Immaginate di essere nel 2035 e di incontrare Gianluca Gaetano su qualche campo di provincia che assiste alla partita del figlio e immaginate che vi dica che il miglior Napoli, per lui, è stato quello di Rudi Garcìa. Ebbene, la stessa cosa è successa a me.
Il Napoli del nuovo millennio che per primo si è affacciato all’Europa fu quello di Edy Reja e lo fece vincendo la coppa Intertoto nel 2008 e uscendo per mano del Benfica, nei preliminari estivi di Coppa UEFA. Quello che però nel consesso europeo ci è entrato e da lì non è più uscito era stato progettato per essere guidato da Roberto Donadoni che, nel 2009, aveva sostituito proprio Reja tra proclami e voglia di crescere ma raccogliendo due sole vittorie in quel campionato, con Inter e Chievo. Il Napoli che si presenta ai nastri di partenza della stagione successiva è una squadra senza coppe, con due sole vittorie ottenute in otto mesi, ma con un’idea di grandezza già ben presente e a dimostrarlo fu quel calciomercato: un portiere nel giro della nazionale campione del mondo come De Sanctis, gli astri nascenti come Quagliarella e Cigarini, dotati di ottima balistica e di grandi prospettive, i sudamericani Zuniga e Campagnaro con quest’ultimo ad avere anche esperienza europea con la Sampdoria e, infine, Hoffer, quindicesimo nella classifica Scarpa d’oro del 2009 dopo aver segnato ventisette gol in trentaquattro partite. La scrematura del campo tra chi ha fatto bene e chi male è avvenuta ma solo successivamente. Piuttosto, pensiamo che questi innesti si aggiungevano ai già validi Lavezzi, Hamsik, Gargano, Paolo Cannavaro. Insomma, quello per il tecnico di allora Donadoni fu un mercato insolito: la dodicesima squadra, in Serie A da nemmeno due anni, che acquistava l’attaccante della settima forza del campionato precedente, ovvero Quagliarella dall’Udinese; come se la Salernitana di Iervolino acquistasse Gianluca Scamacca.
Ma, caro Fabiano, semmai ci stessi leggendo e ti stessi ravvedendo: ma davvero il Napoli di Donadoni è stato il migliore? Ma certo che no. Tu però avevi visto dei germi di grandezza in un progetto che poi ha portato a quel terzo scudetto un anno fa. Germi di grandezza immessi dal presidente De Laurentiis – e chi se non lui – e che l’ex CT certamente non è stato in grado di coltivare. La squadra, però, fu affidata a lui, dopo una sessione di mercato, replicata poche volte, se consideriamo il peso dei nomi e il contesto, forse solo con i Callejon, Higuain e Albiol del ‘13/’14 e i Kvara, Raspadori e Kim del ‘22/’23.
Ecco spiegata dunque l’apparente castroneria dell’ex difensore Santacroce. Il Napoli 2009/2010 che partì con Donadoni non fu certo il miglior Napoli ma in esso viveva già l’idea di una squadra grande, disposta a migliorarsi anno dopo anno. A patto di trovare le persone giuste da mettere al timone.

Infatti, il 4 ottobre del 2009, allo stadio Olimpico di Roma, finisce l’interregno Donadoni sulla panchina del Napoli. I giallorossi di Ranieri vincono 2-1 grazie ad una doppietta di Totti che rimonta l’iniziale vantaggio azzurro di Lavezzi. Anche in quel caso, la pausa delle nazionali indusse il presidente ad optare per il cambio in panchina, chiamando Walter Mazzarri, reduce da una finale di Coppa Italia e da un cammino europeo in coppa UEFA con la Sampdoria. Il resto lo conosciamo già e consiste in un crescendo di emozioni, risultati sportivi e di consensi in giro per l’Europa: di puntuali qualificazioni alle competizioni internazionali, di una Coppa Italia in bacheca battendo in finale la Juventus, di campioni scopertisi tali sul campo di Castelvolturno grazie ad un lavoro nuovo e ad una fiducia ben riposta, su tutti Edinson Cavani. Nel 2009, Walter Mazzarri ha ereditato uno spogliatoio di calciatori talentuosi, tuttavia la mentalità dell’insieme era quella di una squadra che rischiava di assuefarsi ad una pericolosa permanenza nella parte destra della classifica, dove il rischio più grande è sempre quell’anonimato. Anonimato che il Napoli Calcio ha conosciuto inesorabile dopo Maradona e che lo ha portato a retrocedere più volte a cavallo tra vecchio e nuovo millennio. La soluzione, dunque, era quella di non essere anonimi e banali nel lavoro da campo quotidiano: il manifesto programmatico di Mazzarri è sempre stato quello della dura fatica, da imporre ai suoi in allenamento e agli avversari, se volevano cavare un risultato positivo e infatti il bilancio in tre anni e mezzo parla di: 89 vittorie, 49 pareggi e 44 sconfitte (Trasnfermarkt).

Domanda: è più grave un campionato anonimo quando sei incolonnato a destra o a sinistra della classifica e, in particolare, quando sei a sinistra con lo scudetto cucito sul petto? Posto che una piazza come Napoli non ha l’essere anonima nella sua essenza, e posto che l’inizio di stagione 2023/2024 ha gli stessi connotati mediocri visti durante le gestioni di Donadoni ed Ancelotti, rasentare un calcio con questo rendimento da campioni d’Italia in carica è più grave, forse, di qualsiasi cosa.
Il Napoli di oggi, come quello di quattordici anni fa, rischia di veder depauperato il suo patrimonio calcistico, in più, però, rischia, di non competere nemmeno per la difesa del tricolore e di assuefarsi alla sconfitta con le squadre di alta classifica come Lazio e Fiorentina ad esempio, o come Inter e Juventus, che incontrerà al rientro dalla sosta.
Come ci è arrivato ad alzare l’asticella in questo decennio e mezzo di calcio ma soprattutto, era scontato alzare il livello così tanto, dal momento che piazze come Udinese, Torino o le due di Genova, pur essendo abitualmente in Serie A, non lottano quasi mai nemmeno per giocare le coppe europee? La risposta sta tutta il quella grandezza che per natura si associa ad una città come Napoli e che non è scontato che tutti sappiano maneggiare e, soprattutto, manifestare. Ad arrivare a questo livello grande ha contribuito la scelta dell’allenatore di San Vincenzo nell’ottobre del 2009, ovvero quella di un profilo credibile che rendesse tale la squadra che scendeva in campo. A questa credibilità, chi è venuto dopo ha aggiunto la bellezza e dopo ancora una mentalità vincente. Ora che il primo presupposto traino vacilla, è quantomeno logico ripartire da colui che lo ha instillato.

Il miglior Napoli nelle mani di Walter Mazzarri, allora, pare essere proprio questo del 2023, checché se ne dica dopo questi primi tre mesi di calcio e con tutto il rispetto per il gruppo di Santacroce del 2009. Questo è migliore perché è figlio di quel lavoro mentale cominciato proprio con lui tanti anni fa e che, com’è fisiologico che sia, ha conosciuto qualche passaggio a vuoto, datato ma anche recente come quello con Rudi Garcìa. Ora, nel Napoli 2.0, Mazzarri troverà: una situazione sana economicamente e saldamente gestita dallo stesso uomo che lo aveva scelto la prima volta; un gruppo che ha continuato ad essere credibile, che ha vinto e lo ha fatto incantando; la stessa piazza che spinge e che dimostra di avere ancora fame. Ecco, sforziamoci di guardare con criterio al curriculum dei tecnici, distinguendo tra i vari posti di lavoro. Napoli sa essere implacabile anche più della Cagliari che due anni fa ha conosciuto la retrocessione, o dell’Inter disastrata del post-triplete, ma sa anche amare e mettere a proprio agio le persone meritevoli e, impressione personale, sarà quello che (ri)succederà.

Fonte foto: SSC Napoli