“I tedeschi sono battuti. Beckenbauer con braccio al collo fa tenerezza ai sentimenti. Ben sette gol sono stati segnati. Tre soli su azione degna di questo nome: Schnellinger, Riva, Rivera. Tutti gli altri, rimediati. Due autogol italiani (pensa te!). Un autogol tedesco (Burgnich). Una saetta di Bonimba ispirata da un rimpallo fortunato. […] Come dico, la gente si è tanto commossa e divertita. Noi abbiamo rischiato l’infarto, non per scherzo, non per posa. […] I tedeschi meritano l’onore delle armi. Hanno sbagliato meno di noi ma il loro prolungato errore tattico è stato fondamentale. Noi ne abbiamo commesse più di Ravetta, famoso scavezzacollo lombardo. Ci è andata bene. Siamo stati anche bravi a tentare sempre, dopo il grazioso regalo fatto a Burgnich (2-2).”
Così scrive l’illustre giornalista lombardo Gianni Brera, all’indomani della partita del secolo tra Italia e Germania, vale a dire il 18 giugno del 1970.
Allo stadio Azteca, a 2220 metri sul livello del mare si gioca letteralmente in cielo ed è forse per questo motivo che alcune partite – che alcune giocate – vanno ancora oggi al di là dell’umana comprensione. È stato così nei mondiali del 1986 quando Maradona si inventò i due gol più iconici della storia del calcio nel quarto di finale contro gli inglesi. È stato così, ma più in grande, sedici anni prima, sempre allo stadio Azteca di Città del Messico, un’area 51 dove i misteri di questo sport si fanno mistica e ci vengono donati per poterne poi raccontare.
“Lo stadio Azteca rende omaggio alle selezioni di Italia (4) e Germania (3) protagoniste nel mondiale del 1970 della “PARTITA DEL SECOLO”. 17 giugno 1970”. Fuori da questo complesso sportivo, tutt’oggi, si può trovare una placca commemorativa di quel match. Volendo, potremmo aggiungerne un’altra lastra di marmo per celebrare il grande Brasile dei cinque numeri 10 – Rivelino, Tostao, Jairzinho, Gerson e naturalmente Pelé – che quel mondiale non lo vince. Lo stravince. E volendo, appunto, potremmo scolpire su pietra un enorme grazie a Diego, che nel cielo messicano dell’Azteca ha fatto impazzire gli inglesi e poi ha alzato la coppa in faccia ai tedeschi.
C’è poco da dire, il Colosso di Santa Ursula – altro nome con cui è noto questo stadio – ha conosciuto la magia dello sport che amiamo nelle sue forme più pure. Forse, però, vale anche la pena dire che se l’Azteca sta al calcio come la Basilica di San Pietro sta alla religione cattolica il merito è soprattutto di coloro che hanno calcato quel prato. Nello specifico, vogliamo ricordare tre eroi di Messico ’70 che sono morti lo scorso gennaio e ci hanno lasciati un po’ più soli sulla terra per elevarsi di nuovo nel cielo, un po’come 54 anni fa.
Di Gigi Riva si è detto tutto e lo si è fatto, naturalmente, nel rispetto della persona, prim’ancora che del professionista. Della narrazione post-mortem che è stata fatta di lui, balza all’occhio come ciascun emittente o giornale ne abbia parlato come “Dio greco”, forse per dare ancor più valore al soprannome di Rombo di tuono, la cui paternità va al già citato genio di Gianni Brera. Lo Zeus che gioca con i tuoni, il 7 novembre del 1944 si incarna in un esserino che viene al mondo in quel di Leggiuno, in provincia di Varese, e all’età di diciannove anni sceglie un popolo geograficamente e culturalmente lontano, su un’isola come la Sardegna, che più che Italia, all’inizio gli sembrava l’Africa e non in senso lusinghiero.
“Così trovava posto anche nel suo animo quella che è la virtù prima e antichissima di queste terre: l’ospitalità; la virtù per cui i contadini aprono la porta all’ignoto forestiero, senza chiedergli il suo nome, e lo invitano a mangiare il loro scarso pane; di cui tutti i paesi si contendono la palma, fieri ognuno di essere il più amichevole e aperto al viandante straniero, che forse, è un dio travestito”.
Così scrive Carlo Levi nel suo celebre “Cristo si è fermato a Eboli”, guarda caso finito di scrivere proprio nell’anno di nascita di quel dio travestito che è stato Gigi Riva e che, diciannove anni dopo, atterra all’aeroporto di Cagliari con sua sorella Fausta non vedendo già l’ora di ritornare nella sua Lombardia. Ne prenderà di aerei Gigi ma mai più, però, per cambiare residenza.
Costretti da qualcosa di più grande: per lo scrittore medico Carlo Levi è il regime fascista che da Torino lo confina in Lucania per punirlo a causa della sua attività considerata eversiva; per l’orfano Luigi Riva è la responsabilità di fare da padre alle sue sorelle guadagnando laddove si era presentata l’occasione. La storia dell’incontro con la Sardegna è la storia di uno scandalo etnografico, la collisione con una terra misteriosa, dove i codici sono diversi, la cultura è quella di un popolo indigeno, autarchico, chiuso agli influssi che provengono dal continente ma che è in grado di scavare come nessuno nell’animo umano e di esaltarne le virtù, anche se acerbe. Quelle stesse virtù, attivatesi dentro il corpo e la mente del giovane Gigi, hanno portato uno scudetto ai rossoblù nel 1970 e sarebbero stati tre se solo non si fosse infortunato gravemente nel 1969 e nel 1971. Rombo di tuono, con i bagliori delle sue prodezze, ha illuminato Cagliari e l’ha iscritta di diritto nella cartina geografica del calcio, diventando per il club sardo quello che Alfredo Di Stefano è stato per il Real Madrid e Pelé è stato per il Santos. Riva ha esportato un modello di vita e una cultura, mai per scopi promozionali, ma perché nel frattempo era diventato parte di quello stesso modo di essere. La carriera lavorativa di Gigi Riva lo ha visto ricoprire diversi ruoli: calciatore per quasi vent’anni, capo delegazione in nazionale italiana dal 1990 al 2013, presidente onorario del Cagliari. Prim’ancora, però, Gigi è stato un cittadino sardo, pastore amico dei pastori, pescatore amico dei pescatori, tutto gratis stavolta e con un contratto vita natural durante.
Ecco perché, se Cagliari e i cagliaritani devono molto al loro figlio adottivo Luigi, Luigi – come Carlo Levi – deve tutto alla sua seconda terra, quantomeno le deve la seconda delle due vite, quella più intensa, l’unica che valga davvero la pena raccontare.
Lo Zeus che gioca con i tuoni, non dimentichiamolo, era anche un grande amante delle belle donne. E così anche la sua “incarnazione” Gigi Riva che, secondo la testimonianza di Gianni Brera, si presenta ai mondiali di Messico ’70 con la gloria dello scudetto vinto col Cagliari ma anche con qualche grattacapo legato alla sua vita privata. Il campione italiano, infatti, arriva contratto alla spedizione mondiale a causa di una love story con una donna sposata, scoperta dal marito di lei poco prima della partenza degli azzurri per il Centro America. Dolori d’amore che durano poco, almeno finché l’arbitro non fischia l’inizio d Messico-Italia, il 14 giugno. Allo stadio Jalisco di Guadalajara, gli ospiti hanno la meglio sui padroni di casa per 4-1, con Gigi Riva autore di una doppietta. Tre giorni dopo, cinquecentoquaranta km più ad est, Riva mette la firma anche nella partita del secolo contro la Germania Ovest, segnando ai supplementari il gol del momentaneo 3-2.
L’onore delle armi che giustamente va attribuito ai tedeschi fa il paio con l’immensa stima mista alla meraviglia per il genio del loro calciatore più rappresentativo, Franz Beckenbauer. Il 7 gennaio, ovvero 15 giorni prima di Rombo di Tuono, Kaiser Franz si spegne a Salisburgo all’età di settantotto anni. L’8 gennaio, i giornali italiani hanno fatto un po’ quello che avrebbero poi riproposto sempre quindici giorni dopo, ovvero dedicare l’intera prima pagina all’uomo-calciatore che ha avuto il merito e la magia di cambiare per sempre, e in meglio, i connotati dello sport che tanto amiamo.
Franz Beckenbauer, a Messico ’70 ha fatto forse la cosa più grande di tutte: mostrare tutta l’umanità nella sofferenza. Nella partita del secolo, infatti, il mediano azzurro Pierluigi Cera interviene in maniera scomposta sul ventiquattrenne libero tedesco, provocandogli la lussazione della spalla. Chiunque sarebbe uscito in barella tra urla e lacrime. Lui, invece, invita lo staff medico a bloccargli la parte dolorante con una fasciatura rigida sotto la maglietta, per poi riprendere a correre per il campo, ma con un braccio solo. Gli dei del calcio – e Kaiser Franz non si sentiva uno di loro anche se ne avrebbe avuto diritto – hanno poi ripagato il suo spirito di sacrificio e la sofferenza quattro anni dopo, facendogli alzare la nuova Coppa del Mondo nei mondiali casalinghi, nella cui finale annullò letteralmente gli olandesi e Johann Cruijff. Beckenbauer, inoltre, vince un altro mondiale, ma stavolta da allenatore della Germania Ovest, nel 1990, portando il suo genio e la sua disciplina in panchina, per gli stadi italiani che mai hanno potuto ammirarlo davvero nei fasti da calciatore.
Franz Beckenabuer è una delle tre personalità del mondo del calcio a detenere il record per aver vinto un mondiale sia da calciatore che da commissario tecnico. Gli altri due sono Dider Deschamps – capitano a Francia ’98 e CT di Mbappé, Lloris e compagni a Russia 2018 – e Mário Jorge Lobo Zagallo che addirittura di mondiali da calciatore ne ha vinti due (Svezia ’58 e Cile ’62), per poi guidare dalla panchina la nazionale più forte di sempre, nel cielo messicano del 1970. Mario Zagallo ci ha lasciati lo scorso 5 gennaio all’età di 92 anni, dopo una vita al servizio del suo Brasile. C’era lui a prendere per mano il talento ancora minorenne di Pelé e a porre i verdeoro sul tetto del mondo per la prima volta. C’era lui a fare la stessa cosa con Garrincha, quattro anni dopo, mentre Pelé era in infermeria. C’era sempre Zagallo, nel ’70, a mettere insieme i cinque numeri 10 in campo contemporaneamente facendo rendere al meglio quel Brasile, equilibrato nonostante tutto quel potenziale offensivo. C’era sempre Zagallo nel 1998 a sostenere Ronaldo, dopo la finale mondiali persa male contro la Francia.
Fratelli e padri fondatori del calcio moderno: siamo certi che adesso, da qualche parte – magari in altura come all’Azteca – Riva, Beckenbauer e Zagallo stiano parlando di quello che grazie a loro è stato il mondiale di calcio più bello di sempre, come solo gli dei sanno fare.
Fonte foto: pagina ufficiale X Nazionale italiana