Italia, paese di santi, poeti, navigatori, politici, virologi e allenatori, non solo di calcio. Ebbene sì, abbiamo superato il giro di boa dei giochi olimpici, l’evento sportivo che più di tutti è ammantato di magia e divinazione, non perché si richiama al monte Olimpo, casa degli dei secondo la cultura greca, ma perché, come d’incanto, ci ritroviamo tutti esperti nei 32 sport presenti e fossero solo gli sport… Ricapitolando i temi caldi fino ad oggi, 6 agosto: coreografie di apertura dei Giochi, il ph della Senna, i livelli di testosterone nelle atlete e, chissà, tra qualche giorno, anche il punto di ossidazione del ferro della Tour Eiffel. Tutti censori, “tutti tuttologi sul web” come direbbe Francesco Gabbani in Occidentalis Karma. Ma forse, il bello delle Olimpiadi è proprio questo: sono democratiche, ti invadono il quotidiano con sport ignorati da sempre e per sempre come pentathlon moderno, break dance, scherma, fioretto, kayak e temi che chi più ne ha più ne metta.
E il calcio? Ah, già, quasi ci stavamo dimenticando. Diciamo che, mai come alle Olimpiadi, si tratta di una palla al piede. Sì, lo so, la battuta è di pessimo gusto ma può rendere l’idea. A questo punto verrebbe da chiedersi perché una delle maggiori fonti di economia mondiale riscuota così pochi consensi nella manifestazione sportiva più importante.
I motivi sono disparati. Storicamente, il rapporto tra il comitato olimpico (CIO) e le squadre di calcio è sempre stato, quantomeno, nebuloso. La condizione nella quale ogni atleta, sin da fine Ottocento, doveva rientrare per partecipare ai Giochi doveva essere quella di amateur, ossia dilettante, e quindi di colui che non avesse mai percepito alcun reddito praticando il “suo” sport. Questa regola aurea si è fatta sempre meno stringente a partire dalla fine degli anni Venti del Novecento, ovverosia con la nascita della Federazione Internazionale del Calcio (FIFA) che ha aggirato i sacri paletti del barone De Coubertin fino ad oggi. Ogni Nazionale olimpica partecipante al torneo di calcio deve essere formata da atleti Under 23 e tre fuori quota ma nessuno tra questi, oggi, è esattamente un dilettante senza reddito. Senza notorietà spesso sì, ed è per questo che l’Olimpiade del fùtbol non avrà mai la stessa risonanza di un Mondiale, o di una qualsiasi manifestazione internazionale, perché le stelle sono poche, prossime allo zero.
“L’ultima volta che ho ricevuto così tanti rifiuti ero alle medie”. Parole pronunciate lo scorso 3 giugno da una di quelle poche stelle di cui sopra, ossia Thierry Henry. Il campione del mondo del ’98, ex Juventus, Arsenal e Barcellona, oggi è il CT della selezione olimpica maschile della Francia e, com’era giusto che fosse, ha provato a fare un po’ di proseliti per far partecipare qualche grande calaicatore e, di per sé, non dovrebbe essere una cosa difficile se alleni una nazionale strabordante di talento. Tuttavia, quel talento, i club lo vogliono tutto per sé, specie alle porte di una nuova estenuante stagione che si concluderà il prossimo luglio 2025 con il Mondiale per Club in America. Ergo, Kylian Mbappé, corteggiatissimo da CT Titì, non ci ha pensato due volte a dire di no, così come Tchouaméni e Camavinga, suoi nuovi compagni al Real Madrid.
E l’Italia? Tranquilli, lì il pericolo non c’è. Nel 2021 abbiamo, di fatto, smesso di giocare gli Europei – vincendoli –, nel 2014 abbiamo smesso di partecipare ai Mondiali e nel 2008 abbiamo smesso di concorrere per le Olimpiadi. L’Italia del calcio ha deciso, progressivamente, di attuare la strategia dell’oblio trasformando, piacevoli consuetudini in nostalgici ricordi di un passato sempre più lontano. Nella fattispecie, l’Italia del calcio non si è qualificata per Parigi 2024 perché prematuramente eliminata agli scorsi Europei U21, che garantivano il pass olimpico solo alle prime tre classificate. Ecco perché la nazionale olimpica di calcio ha avuto ragione di esistere fino ai giochi olimpici di Pechino 2008. All’epoca, il CT era Pierluigi Casiraghi e in campo c’erano calciatori come i napoletani di nascita Criscito, Bocchetti, Nocerino, i napoletani azzurri Russotto e Cigarini, oltre a nomi decisamente più altisonanti come Giovinco, Montolivo, Marchisio, Candreva e Giuseppe Rossi, capocannoniere di quel torneo. Quella spedizione azzurra termina ai quarti di finale per mano del Belgio, vittorioso per 3-2 con l’Oro che viene vinto, invece, dall’Argentina di Lavezzi, Riquelme, Mascherano, Aguero, Di Maria e, soprattutto, di Messi. Ok, forse Pechino 2008 ha avuto qualcosa da dire anche in materia calcistica ma si è trattato di un’eccezione.
L’eccezione, che poi è diventata regola, è stata anche l’ultima olimpiade parigina prima di questa, ovverosia quella di cento anni fa. Citando testualmente lo scrittore Eduardo Galeano (Montevideo, 3 settembre 1940 – Montevideo, 13 aprile 2015):
“L’Europa non aveva mai visto un nero giocare a calcio. Nell’Olimpiade del 1924, l’uruguagio José Leandro Andrade abbagliò per le sue giocate di classe. […] In una delle partite attraversò mezzo campo con il pallone addormentato sulla testa. Il pubblico lo acclamava, la stampa francese lo chiamava «la meraviglia nera». […] Fu nero (Andrade, ndr), sudamericano e povero, il primo idolo internazionale del calcio”. (E. Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling &Kupfer Editori, Milano 1997)
Per fare un parallelo con i giochi di Parigi cento anni dopo, Andrade rappresenta un misto tra la nuotatrice statunitense Katie Ledecky e la connazionale ginnasta Simone Biles, con una spruzzatina di Yusuf Dikeç, il “pistolero” turco che ha vinto l’argento senza le protezioni del protocollo, con le mani in tasca e preoccupandosi, piuttosto, di dove fosse la sala fumatori più vicina per festeggiare a modo suo.
Geni contemporanei anzi, demoni. Sì, proprio demoni e per essere più precisi, sciamani, come il papà della meraviglia nera Andrade, un santone brasiliano trapiantato a Salto, in Uruguay, e pertanto chiamato El Brasilero. Alla veneranda età di novantun anni, quest’uomo ha un figlio da Anastacia, ovvero il piccolo José Leandro, e, poco prima di morire, gli regala un unguento speciale prodotto dalle squame dell’alligatore per farglielo spalmare sui piedi prima di giocare a calcio.
La grande svolta, per Andrade, arriva alla soglia dei vent’anni quando, nel suo primo club, il Bella Vista, conosce José Nasazzi, grande capitano dell’Uruguay, che gli fa da chioccia e che nel ’24 convince il CT della Celeste a portarlo con loro a Parigi per le Olimpiadi. Nella capitale francese, i calciatori dell’Uruguay sono dei perfetti sconosciuti. Nessuno, tra gli addetti ai lavori, si era mai premurato, prima di allora, di visionarne gli allenamenti e, quando prendono a farlo in Francia è già troppo tardi. La spedizione francese di Nasazzi, Andrade e cumpañeros si rivela essere un massacro calcistico. Per gli avversari però. I sudamericani vincono l’oro olimpico a mani basse, mettendo a segno la bellezza di venti gol in cinque partite, compreso un quarto di finale contro i padroni di casa della Francia, umiliati per 5-1. Alla domanda dei giornalisti su quale sia il segreto di tale strapotere Andrade risponde: «Noi in Uruguay ci alleniamo inseguendo le galline… Perché, voi non lo fate?». In effetti, c’è un’assonanza con il logos delle prime olimpiadi greche, nate come rito funebre ma anche come rito di caccia.
Quattro anni dopo, gli uruguagi si ripetono nella kermesse olimpica di Amsterdam, conquistando un altro oro grazie alle gesta del fenomeno Andrade e guadagnandosi anche crediti per ospitare la prima edizione dei Mondiali di calcio del 1930 vinta indovinate un po’ da chi…
Quando si parla di Uruguay non si può non celebrare il miracolo del calcio autentico, trattato con rispetto e passione, sia che si tratti di Olimpiadi che di Mondiali. E, soprattutto, non si può non dire che, tabernacolo di questo miracolo, è appunto uno stato piccolino, incastonato tra Brasile e Argentina, con un’estensione superficiale equivalente a quella media di una regione italiana. Non è scontato che in un’area così piccola si creino i presupposti per vincere due olimpiadi (1924 e 1928), oltre che due mondiali (1930 e 1950), quindici Coppe America, per non parlare dei talenti che hanno fatto la storia del fùtbol come Andrade, Francescoli, Suarez, Cavani, Valverde oggi e, soprattutto i caudillos, cioè i leader della difesa, a cominciare dai capitani vincitori del ’30 e del ’50 José Nasazzi e Obdulio Varela, fino ad arrivare ai recenti Lugano, Godin, Gimenez e Araujo.
In un’epoca come quella di fine anni Venti, in cui il mondo del football era ancora anglofono, l’amore per questo sport proveniente dai popoli d’Oltreoceano ha prima scandalizzato e poi messo radici. Ecco perché, quando ci capiterà di pensare all’inconsistenza del calcio olimpico di oggi, proviamo a pensare anche che nei Giochi di Parigi del 1924, un manipolo di dotti, medici e sapientoni ha scoperto la meraviglia nera di Andrade, e che Andrade stesso, a sua volta, ha insegnato loro il vero gioco del calcio, senza il quale, oggi, saremo tutti un po’ più ciechi, un po’ più poveri.
Fonte foto: pagina ufficiale X Seleccion Uruguaya