Pillole di Calcio – Asso di coppe, briscola a denari. Perché il Mourinho 2.0 fa il male del nostro calcio?

«Ho insegnato in una scuola per bambini con sindrome di Down. Non ero preparato perché non avevo né esperienza né formazione. Avevo 24 anni e sentivo tutta la responsabilità. […] Quello che avevo da dare era l’amore. Niente più. E l’ho dato ai bambini. È stato l’amore a farmi fare qualcosa di fantastico per la loro formazione». Lo scorso 31 marzo, l’allora allenatore dell’As Roma José Mourinho parlava in questo modo alla Pontificia Universitas Gregoriana dove con il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, in occasione della celebrazione dei 10 anni dalla nomina di papa Francesco al soglio pontificio.
La vita di José Mário dos Santos Mourinho Félix da Setùbal è un rifacimento in salsa pallonara delle gesta di Napoleone Bonaparte: un’infanzia e un’adolescenza brillanti passate ad assorbire nozioni e competenze per alimentare la passione per il calcio, gli esordi al seguito dei migliori generali-allenatori come Bobby Robson e Louis van Gaal e poi, finalmente, l’autonomia e il mondo intero ai suoi piedi o, per meglio dire, ai piedi di chi i piedi li usava bene, ossia i calciatori che allenava. Il problema, però, per Mourinho come per il vecchio imperatore dei francesi, è che dopo aver toccato l’apice, la tagliuola della discesa si è rivelata inesorabile e dolorosissima.
Il percorso verso il massimo splendore di Mourinho si compie in dieci anni: nel 2000 diventa primo allenatore al Benfica, due anni dopo diventa tecnico del Porto con cui conquista – nel biennio successivo – una Coppa UEFA e una Champions League impronosticabile. Gli echi di questo giovane genio arrivano a Londra, dove un magnate russo di nome Abramovich attiva la gold card delle spese illimitate, ingaggia Mou e gli realizza qualsiasi desiderio dal mercato. Dopo due Premier League arriva la chiamata dall’Italia, con Moratti che allestisce, a partire proprio da mister José, l’Inter che poi avrebbe vinto il Triplete nel 2010. Triplete che, incredibilmente, Mourinho non festeggia a San Siro, con i suoi tifosi, i calciatori e la società, bensì a casa di Florentino Perez, presidente del Real Madrid, la sua prossima squadra.
A Madrid si rivela un abile stratega, uno statista, un oratore, forse persino un profeta. Sì, resta l’allenatore ma quello che di colpo sparisce è l’educatore José, quello degli Allievi del Vitoria Setubal, quello del “tutto è psicologico, amore, passione, empatia, affetto”. Alla Casa Blanca non riesce nell’obiettivo di vincere la decima Champions League e sarà questo il discrimine tra un lavoro fatto bene e la perfezione, cosa che si esige da almeno 60 anni da quelle parti. Se non altro, al Real José perfeziona una nuova idea di calcio dove i protagonisti non sono i 22 in campo ma lui stesso che, in conferenza stampa, chiama in causa il nemico di turno.
La sua nemesi più grande, sin dagli anni in nerazzurro, è Pep Guardiola, autentica stella nell’universo degli allenatori che hanno riscritto le regole del gioco, come in passato fatto dai Rinus Michels e dagli Arrigo Sacchi. Dal Momento che Guardiola è tutto ciò che Mourinho non è e non potrà mai essere, ovvero uno scienziato nel suo laboratorio, va demolito insieme alle sue provette! È, in parte, quello che avviene nel triennio madridista: Mou riesce nell’impresa di destabilizzare il giovanotto Pep e la sua banda di invincibili blaugrana. Guardiola, addirittura, si concede un anno sabbatico per disintossicarsi dalle scorie di una dialettica – in campo e fuori – che il giornalista Paolo Condò ha magistralmente narrato in un libro dal titolo “Duellanti”.

Dopo Madrid, per Mou c’è nuovamente la Londra blu del Chelsea, poi la Manchester rossa e di nuovo il duello con un Guardiola più maturo, nel frattempo nuovo manager del vicino Manchester City. Questo nuovo capitolo della saga Mou vs Pep è di sicuro meno avvincente per un motivo: Pep stravince questo nuovo duello come Sir Arthur Wellesley, il Duca di Wellinghton, stravince contro Napoleone in quel di Waterloo il 18 giugno 1815. Dopo la non esaltante esperienza al Manchester United, nella Londra sponda Tottenham va in scena un lungo, interminabile inverno conclusosi con il terzo esonero in otto anni. Va, dunque, ripulita una reputazione: “cara Italia, ma non è che hai bisogno ancora di me?”.

A rispondere presente è la Roma e il resto è una storia tutta italiana fatta di poche vittorie esaltate oltre modo, molte sconfitte con capri espiatori sempre diversi, un “amore” con un popolo sedotto e poi ancora sedotto, una crisi economica societaria che non conosce ancora fine ma che non ha impedito alla proprietà americana di tagliare questo cordone ombelicale, esonerando Mourinho lo scorso martedì 16 gennaio e richiamando a casa Daniele De Rossi.

Così scrivevamo il 19 aprile 2022, sempre qui, sempre per la rubrica Pillole di Calcio: “È, certamente, necessario, esigere sempre molto di più dalle squadre e dai calciatori dei nostri campionati, in termini di proposta, di personalità, in generale, quindi, di cultura. Una cultura dell’equilibrio, che possa sì supportare l’ultimo baluardo giallorosso ma allo stesso tempo capire che la strada imboccata dal suo condottiero non è di certo quella giusta. La stagione della Roma, infatti, ha vissuto di sporadiche folate di orgoglio tramutatesi in vittorie, anche all’apparenza convincenti, ultime il derby con la Lazio e il ritorno nei quarti con i norvegesi del Bodo. Restano, tuttavia, le nubi su tutto ciò che si pensava potesse portare Mourinho in termini di proposta di gioco e che invece non è stato. Restano i dubbi su quale sia, in realtà, la vera identità di un gruppo, che ad oggi merita di stare fuori dalle prime quattro posizioni, ma che, allo stesso tempo, sembra essersene svincolato troppo presto”.

Siccome il calcio guida, due anni e mezzo fa siamo stati guidati a fare una narrazione un po’ diversa rispetto a quella del Mourinho Special – ancora in voga in Italia persino fino a qualche giorno fa – che, in fin dei conti, ha finito per fotografare con largo anticipo la realtà dei fatti. E qual è questa verità? È senz’altro quella di una squadra che ha sempre giocato di rimessa, con addetti ai lavori impegnati ad intimorire la squadra arbitrale e i calciatori in campo a fare lo stesso con gli avversari. Nel tempo passato nella Capitale, Mourinho ha praticato uno sport più da Colosseo che non da stadio, di fatto non onorando le regole non scritte del calcio, ovvero fidelizzare con il pubblico attraverso una proposta di gioco e una onestà intellettuale e professionale. Se proprio volessimo essere sinceri fino in fondo, infatti, dovremmo dire che, a Roma, il vecchio José ha perso anche la sua autentica capacità di fare un’opera di alta comunicazione. Il numero delle volte in cui il portoghese ha discusso di calcio giocato, entrando nelle pieghe della partita, è stato pari allo zero. Il più delle volte, piuttosto, il vecchio Vate preferiva denigrare il suo parco calciatori o l’operato della terna arbitrale, il tutto rigorosamente senza un contraddittorio tra i giornalisti, con i quali, per giunta, neanche parlava poiché rifiutava perfino il collegamento con gli studi televisivi. Scelta di pessimo gusto – e questo è un eufemismo – dal momento che il suo stipendio lo pagano (tutt’ora) proprio le televisioni, grazie ai diritti pattuiti rigorosamente al ribasso perché il prodotto calcio italiano è scadente, anche a causa di proposte obsolete e di deprecabili scene di violenza in campo come quelle messe in atto dalla sua Roma in questi tre anni. Ecco, il cane che si morde la coda.

“Sì ma Mou ha riempito lo stadio”. Certo, ma siamo sicuri che a riempire l’Olimpico non sia stata l’idea del Mourinho vincente che fu, e gli strascichi di una narrazione che i giornali e le radio amiche hanno alimentato quotidianamente. In più, la vittoria della Conference League del 2022 ha dato man forte a tutto ciò, con Mourinho che ha cavalcato la coppa vinta e il percorso europeo dell’anno successivo, con una finale di Europa League di fatto “scippata” ai giallorossi dall’arbitro e il conseguente: “Io resto qui. Non vi abbandono”.
La Roma ‘23/’24 si è presentata ai nastri di partenza come un instant team che è stato costruito con enormi sacrifici economici per raggiungere l’obiettivo quarto posto, l’unico concretamente raggiungibile che garantisca ossigeno alle casse societarie. La squadra, con o senza Mou in panca, ha quella forza necessaria per raggiungere questo obiettivo stagionale e per competere su quello dell’Europa League cercando di andare quanto più lontano è possibile. L’uscita indecorosa dalla Coppa Italia non ci esime dal dire che anche in quest’altra competizione, naturalmente, c’erano le basi per far meglio, quantomeno per provare a vincere il derby con la Lazio senza ricorrere ai modi da far west di cui sopra.
Cosa più importante: la Roma possiede la rosa adatta per poter fare il cosiddetto player-trading, ovvero mettere tutti i calciatori in condizione di far bene, facendo lievitare il valore di mercato e poi venderli bene. Il matrimonio con Mourinho, invece, ha sortito l’effetto opposto: ogni calciatore ha visto deprezzato il suo cartellino e sbiadita la sua immagina per via di un tutto che ha smesso di funzionare, posto che abbia mai funzionato. In Italia, mai come ora e mai come nel caso della Roma, è necessario vendere bene per poter disporre di liquidità sufficiente per ripianare debiti e sanare bilanci di un calcio povero anche a causa di nuove scelte governative più o meno sensate, come l’abolizione del decreto crescita. Già da questa sessione di calciomercato, infatti, i club non potranno più beneficiare degli sgravi fiscali sugli stipendi di calciatori provenienti dall’estero. Ci sarà modo per sfogliare il ventaglio delle soluzioni per ovviare a questa difficoltà. Una più immediata soluzione potrebbe essere quella di esportare l’immagine dei calciatori e di storie di calcio vero come quella del Napoli spallettiano, del Bologna, del Genoa e persino di Juve, Inter e Milan, attualmente prime della classe grazie alle loro identità chiare e ai valori individuali esaltati da un collettivo che funziona perché. Di sicuro per rianimare il nostro calcio italiano, nel 2024, non abbiamo bisogno di allenatori come questo Mourinho e dei suoi palmares di coppe vinte oramai un ventennio fa.

Fonte foto: pagina ufficiale AS Roma