Pillole di Calcio – Splendori e miserie della nostra Serie A: comanda il Napoli, tanta confusione dietro

Eccoci giunti a quel momento tanto (poco) atteso della stagione, ovvero quello della lunga pausa del calcio di club che scocca per dare inizio al Mondiale degli altri. Ebbene sì, domenica prossima realizzeremo una volta per tutte il secondo disastro, in appena cinque anni, del movimento di calcio azzurro o, se preferite, tricolore. Di questi tempi è bene specificare la tonalità del colore azzurro perché per un azzurro Italia che dividerà il suo popolo di fedeli tra centri commerciali, montagna, musei e, appunto, calcio in Qatar, ce n’è un altro, ovvero l’azzurro Napoli che, più che mai, tiene uniti tutti, ma proprio tutti. Tifosi partenopei e avversari sono, infatti, concordi nell’affermare che la squadra di Spalletti sia la più bella realtà di questa metà di stagione. Il consenso riscosso dal Napoli è unanime, fa il giro del mondo, e più si sprecano calcoli statistici, richiami alla cabala e titoloni sulle inseguitrici più è forte e concreta la paura.

Alzi la mano chi si aspettava questo ruolino di marcia da parte del Napoli nelle prime quindici giornate, con trentasette gol fatti, dodici subiti e quarantuno punti a proiettare la banda di Spalletti al primo posto con un +8 sul Milan che certo non sentenzia nulla ma dà la percezione di quanto straordinario e costante sia stato il percorso azzurro finora. Un percorso cominciato tanto tempo fa, nell’estate del 2021, quando il mister di Certaldo è stato ufficializzato sulla panchina del Napoli. Cosa c’è del Napoli dello scorso anno in questo che sembra volare? Di certo sappiamo cosa non c’è, ovvero la vecchia guardia ma non è giusto, a tal proposito, parlare della squadra azzurra come dell’atomo che si carica positivamente quando perde gli elettroni, cioè le sue cariche negative. Mertens, Insigne e Koulibaly hanno rappresentato i capisaldi di un corso azzurro difficilmente dimenticabile ma la sensazione era che avessero dato tutto con quella maglia. Meglio, dunque, porre l’accento su un valore presente anche lo scorso anno nel gruppo squadra, ovvero quello del lavoro, nei modi, nei tempi e nelle strategie tipici di un maestro come Spalletti. Un lavoro che, pur attecchendo sin da subito non è mai stato così radioso da valicare i confini nazionali. Merito anche del palcoscenico più importante, quello della Champions League, conquistato proprio grazie agli sforzi fatti durante la scorsa stagione. Il primato nel gruppo A di Coppa dei Campioni – a danno dei vicecampioni d’Europa del Liverpool e dei pionieri del “calcio totale” dell’Ajax – ha nobilitato una campagna di rinnovamento di uomini e di idee che abbraccia ogni settore del SSC Napoli. A proposito, c’era chi, al netto soprattutto delle uscite di cui sopra, salutava il mercato in casa azzurra con profondo scetticismo e rancore e invece adesso benedice gli acquisti uno ad uno, specialmente quella “doppia K”. Perché con la maglia azzurra addosso Kvicha Kvaratskhelia e Kim Min-Jae si sono impossessati dell’Italia e dell’Europa che conta come nessuno aveva mai fatto prima. Se conquisti Anfield come fai coi campi turchi, russi e georgiani allora i crismi del campione ci sono tutti. Il gruppo dei nuovi, inoltre, va ad integrarsi alla grande con uno spogliatoio che da tre anni e mezzo può contare sulla saggezza di un leader silenzioso come il capitano Giovanni Di Lorenzo e da tre, invece, su Stanislav Lobotka, a cui però serviva Spalletti per diventare dinamo e luce in campo. La verità è che una figura come Spalletti serviva a tutti, nessun escluso, dal presidente De Laurentis a noi tifosi italiani – indipendentemente dal colore della maglia – per autoconvincerci, su basi solide e da lui stesso sempre spiegate, che l’umiltà e il lavoro, oltre alla credibilità, danno l’energia giusta per fare sempre meglio. Alla luce di ciò: perché, in giro per l’Italia, molti si dimenano in psicologie spicce per cercare nello stesso Napoli i germi di una crisi o, quantomeno, di un rallentamento alla ripresa? Non c’è un solo elemento logico, al momento, che faccia presagire un harakiri azzurro. Semmai, ci sarebbe la forza delle avversarie.

A cominciare dai campioni d’Italia in carica. Il Milan di Stefano Pioli è e resta un gruppo di comprovato valore con un gioco in grado di offrire più varianti tattiche nei 90’ e varie individualità in grado di indirizzare l’inerzia come Rafael Leao e Theo Hernandez. In più, i vari Tonali, Kalulu e Giroud sembrano aver cominciato da dove si erano fermati l’anno scorso, ossia al comando dei rispettivi reparti. Come in occasione del campionato scorso il Milan non è favorito per la vittoria finale e, complice di questo stesso giudizio di partenza c’è, ancora una volta, una squadra che sembra non godere di una profondità nella rosa che permetta di affrontare i numerosi impegni con una maggiore leggerezza nelle scelte. In più, il mercato naif della scorsa estate, con nomi esotici e sconosciuti – come fatto all’ombra del Vesuvio – non ha sortito gli stessi effetti del Napoli e il nuovo costosissimo acquisto Charles De Ketelaere ha rasentato, domenica dopo domenica, qualcosa tra l’anonimo il misterioso. Tuttavia il Milan non ha affatto smarrito lo spirito coriaceo della stagione dello scudetto, con un rendimento in campo che, tutto sommato, lo tiene in scia sia in campionato che in Champions League.
Chi, invece, questa estate la sua rosa l’ha resa profonda con un mercato da Premier League è stata la Juventus. Non tanto la quantità ma la qualità degli innesti– con i nomi di Bremer, Paredes, Di Maria, Pogba e Milik – unita al materiale già presente tutt’altro che scadente, doveva garantire un posizionamento da protagonista in campionato e un percorso Champions degno della storia bianconera. Una storia europea della Juventus che parla sì di poche vittorie e molte sconfitte, ma in finale, o almeno nelle finals a partire da febbraio, non certamente ai gironi. La campagna in Champions della squadra di Allegri è stata un disastro senza senso con un terzo posto nei gironi, alla stregua di un Maccabi Haifa qualunque, ultimo solo perla differenza reti. Questa debacle, unita ad un campionato mesto fino ad un mese fa non può essere soltanto figlia dei tanti infortuni. Adesso, c’è chi parla di resurrezione bianconera e ci può stare: in Serie A la Juve si è assestata sui suoi livelli “italiani” di difesa militare e attacco improvviso, raccogliendo risultati – ma non consensi autentici – che la tengono aggrappata al treno per il primo posto. Basterà questo? Per l’allenatore doveva bastare anche un secondo posto nel girone a danno del Benfica, poi sappiamo com’è finita. La prossima gara che si disputerà al Maradona sarà proprio Napoli-Juventus e in quell’occasione ne sapremo di più.
Chi, al pari della Juve, si presentava da favorita ai nastri d partenza era l’Inter, complice un mercato di rafforzamento dei due reparti maggiormente deficitari durante lo scorso campionato: la porta, l’attacco e la panchina. In avanti, il grande ritorno di Lukaku ha fatto ben sperare la piazza, in panchina, Asllani e Mkhitaryan su tutti hanno scongiurato il problema dell’assenza di un vice-Brozovic mentre, tra i pali, Onana si presentava come bisognoso di esser catechizzato da Handanovic, per poi prenderne il posto. La verità è che sulla sponda nerazzurra di Milano la confusione è, e verosimilmente resta, tanta, perché è vero che la sfortuna – o una preparazione atletica inadeguata – ha privato Inzaghi dei suoi due uomini migliori, ovvero Brozovic e lo stesso Lukaku ma è vero anche che il ruolino di marcia in campionato che adesso vede l’Inter quinta è figlio soprattutto di una mancanza di quelle stesse idee ed energie mentali che ne hanno fatto le fortune fino a qualche mese fa. Il manifesto di ciò è l’incredibile dato dei gol presi, ben 22, che la proiettano al settimo posto della poco onorevole classifica delle reti al passivo, insieme a Monza e Sassuolo. Non solo, perché i nerazzurri, almeno fino alla scorsa domenica, avevano perso tutti gli scontri diretto contro ogni diretta concorrente per la corsa al vertice, o per un piazzamento in Europa. Praticamente, chiunque, bazzicasse dall’ottavo posto in su, batteva l’Inter anche con relativa facilità. È stato così contro Lazio, Milan, Roma, Juve e anche contro l’Udinese, che a fine settembre era addirittura in zona scudetto. Di contro, la campagna Champions dell’Inter, contro ogni più rosea aspettativa, è stata un successo, in un girone con Bayern e Barcellona che definire proibitivo, ad agosto, era dire poco. La saggia gestione della doppia sfida contro il cuscinetto Viktoria Plzen e i 180’ contro il Barcellona, fatti di barricate difensive e, anche e soprattutto, di una proposta di calcio offensiva, hanno dato all’Inter di Inzaghi il pass per un ottavo di finale più che meritato.
Una posizione sopra i nerazzurri c’è la Lazio di Maurizio Sarri. I biancocelesti chiudono il loro 2022 con un netto 3 a 0 al passivo a Torino contro la Juve. Un risultato che non rende certo giustizia ad un percorso di grande generosità da parte dell’allenatore di Figline e dei suoi ragazzi. Sarri ha il merito, tra le tane cose, di aver finalmente registrato la difesa, punto imprescindibile del suo calcio, imperniandola su un giocatore di forza, esperienza e identità laziale come Alessio Romagnoli. Resta il neo dell’eliminazione dall’Europa League, con Sarri – vincitore della competizione col Chelsea nel 2019 – che sembra averla snobbata sin dalle prime uscite, cosa già accaduta in passato quando era alla guida del Napoli.
Sull’altra sponda del Tevere, invece, si festeggia ancora la vittoria della Conference League e qualcuno pare, addirittura, non essersi ancora ritirato a casa dalla festa di presentazione di Dybala. Sì, non c’è altra spiegazione. La galvanizzazione – o meglio obnubilazione – dei tifosi della Roma è talmente forte che la proposta mediocre della squadra – alla quale ha fatto eco una serie di ultimi risultati altrettanto mediocri come la sconfitta nel derby – passa in secondo piano dinanzi a qualche arringa non calcistica di Mourinho, anche se con questa si mette alla gogna un giocatore del tuo stesso spogliatoio. A quanto pare è più importante calpestare la dignità di una persona che spendere due minuti per fare un’analisi calcistica seria che riguardi la propria squadra.

Per finire, una riflessione sulle “piccole”. Il campionato di Serie A, anno dopo anno, è sempre più spaccato in due, con sette “sorelle” – vale a dire le squadre di cui sopra più l’Atalanta – e altre tredici. A permettersi, poi, il “lusso” della parte sinistra della classifica sono squadre come Fiorentina, Torino e Udinese, ben dirette dai rispettivi allenatori, con progetti seri, in particolare quello Viola, presente anche sul palcoscenico della Conference League. Resta però il forte divario che si amplia se si passa a destra, dove stanziano le note dolenti di un calcio superato, semisconosciuto e quindi poco venduto all’estero. Le “piccole” della nostra Serie A, sono e saranno destinate a rimanere delle comparse, relegate troppo spesso al ruolo di “cuscinetti” da un movimento che non si oppone a questo andazzo, che non accenna a crescere e di cui proprio le squadre minori rappresentano una triste cartina di tornasole. Le eccezioni ci sono – si veda ad esempio il percorso tutto sommato onorevole della Salernitana di Nicola – ma, purtroppo, resta sempre troppo poco.

Fonte foto: pagina ufficiale Twitter SSC Napoli