Pillole di Calcio – K come Kvara. K come “Kickboxing”. Il lato selvaggio della nostra Serie A, non sempre al servizio dello sport

È bastata una settimana di semi-purgatorio per i tifosi del Napoli: il tempo di sentirsi in colpa due o tre giorni per aver avanzato propositi di festeggiamenti anticipati per quello che – cataclismi naturali o giudizi universali permettendo – sarà il terzo scudetto degli Azzurri, senza rendersi realmente conto che la mediocrità dietro è talmente sovrabbondante e che né la storia, né qualche buona partita di tanto in tanto può rimettere in gioco le inseguitrici per il vertice. Morale della favola: la squadra che, alla vigilia di Napoli-Atalanta, figurava come seconda in classifica e che aveva “rosicchiato” tre punti la settimana prima – vale a dire l’Inter – è ritornata a perdere, in quel di La Spezia, e proprio contro i bergamaschi il Napoli ha ristabilito il fatidico +18 contro il “nemico di rappresentanza” di turno.
Appunto, “nemico di rappresentanza” e chissà perché, ogni volta che il campionato arriva alle ultime battute, uno dei tornanti decisivi per lo scudetto è l’Atalanta. Proviamo ad essere più chiari: due anni fa – a maggio – l’aritmetica dello scudetto dell’Inter arrivò proprio grazie ad un pari tra gli uomini di Gasperini e l’allora Sassuolo di De Zerbi, bravo a fermare una corsa comunque velleitaria della Dea poiché indietro ai campioni d’Italia di oltre dieci punti; l’anno scorso, nella penultima di campionato, i bergamaschi furono sconfitti a San Siro dal Milan e da Theo Hernandez che dribblò un po’ tutti prima di depositare il pallone alle spalle di Musso per il 2-0 finale.
Il gol di Theo dello scorso 15 maggio ricorda un altro gol di un’altra penultima giornata di campionato: correva l’anno 2008 e il Napoli di Edy Reja conquistava l’accesso alla coppa Intertoto battendo per 3-1 al San Paolo i campioni del mondo del Milan con il gol di apertura di Marek Hamsik messo a segno dopo aver seminato il panico per tutto il terreno di gioco, saltando i rossoneri come birilli. Ricordi di un passato lontano, scolpito nella storia di un popolo fiero, selvaggio per certi versi, come quel gol di Marekiaro e le sgroppate di Lavezzi, che in quella partita valsero il rigore poi trasformato da Domizzi. Caratteristica, questa, che ha ripreso ad appartenere alla compagine azzurra sia perché Luciano Spalletti ha portato una cultura della ri-aggressione – tale per cui l’imperativo quando hanno palla gli avversari è “attaccarli” per recuperare la sfera – sia perché tra i tanti calciatori portati in Italia il ds Cristiano Giuntoli ha portato, nell’ordine, Victor Osimhen, Zambo Anguissa, Kvicha Kvaratskhelia e Kim Min-Jae. Ci troviamo dinanzi a quattro creature meravigliose che rappresentano, ad oggi, l’unico filo sottilissimo che collega il calcio italiano alla parola “credibilità” per la serie “indovina un po’ qual è la squadra italiana più seguita all’estero?”. A spodestare l’Atalanta – che in quanto a plebisciti dall’Europa che conta nemmeno scherza – ci ha pensato, lo scorso sabato proprio Kvara con un pezzo da maestro che ha bissato la prodezza contro il Sassuolo, ricordato ai napoletani i fasti di quel gol di Hamsik al Milan, ai bergamaschi i fantasmi di una difesa disorientata come un anno fa da Theo e cucito un altro pezzo di tricolore sulla maglia dell’anno prossimo. Non sarebbe possibile fare tutte queste cose insieme ma non lo sarebbe neanche “mandare sul lungomare” otto uomini di Gasperini contemporaneamente, portiere compreso, e avere la sapienza – più che il tempo – di trovare il punto esatto in cui far passare quel pallone, poi diritto sotto la traversa.
La verità è che uno come il georgiano, in Serie A, non si è mai visto, in termini di rendimento rapportato alle aspettative. Forse Maradona, ma con Diego è stato diverso: il Barcellona e il Mondiale di Spagna disputato due anni prima dell’arrivo al Napoli costituivano un biglietto da visita già sufficiente per gremire lo stadio San Paolo sin da subito. Diego è arrivato all’ombra del Vesuvio già come Maradona mentre Kvicha Kvaratskhelia ci è arrivato come il georgiano, uno del quale, all’inizio non valeva neanche la pena pronunciare il nome per bene e invece adesso lo si scandisce megliopersino della parola SCU-DET-TO. Tempo al tempo.
Diciamo allora che il liberiano e il brasiliano, vale a dire George Weah e Ricardo Kakà– due che di coast to coast pure se ne intendevano –, non sono arrivati al Milan come i fenomeni che poi si sono rivelati ma è pur sempre vero che non arrivavano da piazza semisconosciute come la Dinamo Batumi o il Rubin Kazan, bensì dai pur sempre rispettabili Paris Saint Germain e San Paolo. Da qualsiasi punto la si guardi, allora, il georgiano è come la Cometa di Halley, un fenomeno assoluto, ai limiti dell’irripetibile per un essere umano con un’aspettativa di vita di poco più che di ottant’anni. Anzi, più che cometa è un asteroide, per le difese avversarie però, perché vi impatta con violenza selvaggia provocando shock e facendo sognare gli amanti di questo sport.

A proposito di “violenza selvaggia”, non è un po’ un controsenso che in una lega che propone, ogni sacrosanta settimana, un’iniziativa diversa nel campo dell’educazione si vedano – da ogni angolazione possibile – calciatori che prendono a calci non un pallone bensì i loro stessi colleghi? Il 16 febbraio scorso la Lega Serie A lanciava l’iniziativa #UNROSSOALLAVIOLENZA stigmatizzando la violenza sulle donne e sensibilizzando questa buona battaglia sociale. Dalla settimana successiva: Mario Rui espulso per un calcio (voluto) a Ciccio Caputo, Moise Kean espulso per un calcio (voluto e caricato) ai danni di Gianluca Mancini e, infine, domenica scorsa, Marash Kumbulla espulso per un calcio ai danni di Mimmo Berardi, tra l’altro con il pallone in gioco e causando anche il rigore per il Sassuolo. Se dobbiamo specificare anche che la violenza non va bandita solamente nei rapporti uomo-donna ma in maniera universale, allora dove troveremo il tempo di parlare più e meglio anche del calcio come sport? Dovremmo forse reinventarci cronisti di kickboxing, dove va preso a calci il proprio sfidante su un ring? I protagonisti di questi fatti, oltre ad essere umani come tutti e sovra-esposti mediaticamente – per cui è più facile, anche se comunque non giustificabile, che partano i cosiddetti “cinque minuti” – sono i principali veicoli dei messaggi di sostenibilità che la Lega Serie A fa calare dall’alto. Per cui passi pure che in occasione dell’iniziativa #IOLEGGOPERCHÉ i calciatori entrino con i libri in mano per poi tornare a non leggere mai neanche il menù del ristorante ma guai ad essere complici di certi comportamenti violenti non denunciandone la gravità. Questo mondo è già abbastanza malato di suo e il calcio dovrebbe lenire i problemi anziché moltiplicarli.

Fonte foto: pagina ufficiale Instagram officialsscnapoli