C’è una voce nel dizionario Treccani aggiunta nel marzo del 2018 che inaugura un neologismo: sarrismo. Con tale vocabolo l’enciclopedia italiana – pur non potendo arrogarsi il diritto spettante unicamente all’Accademia della Crusca di standardizzare un nuovo lessema nella lingua italiana – rese omaggio non solo ad una filosofia di calcio, bensì alla forma più estrosa ed estetica del Napoli dell’era De Laurentiis. La definizione recita: «La concezione del gioco del calcio propugnata da Maurizio Sarri, fondata sulla velocità e la propensione offensiva». Volendo esibire un’analisi testuale della dicitura sarebbe necessario sottolineare a più riprese il sintagma “gioco del calcio”, perché solo in tal maniera si esporrebbe il vero principio che dal luglio del 2015 contribuì a costruire una delle pagine narrative più avvincente della storia del calcio partenopeo e – si permetta – del calcio italiano, alla quale mancò soltanto il lieto fine.
Il fallimento dell’obiettivo Champions conseguente il piazzamento al quinto posto nella classifica di campionato, che in verità non valse a denigrare la completa direzione del tecnico pluripremiato Rafael Benitez, il quale poté con fierezza osservare il capitano Marek Hamsik sollevare la Coppa Italia della stagione 2013-14, condusse il patron azzurro a virare verso la scelta di un allenatore meno ingente, ma il cui lavoro ad Empoli aveva già suscitato un forte interesse nel panorama calcistico italiano. La tecnica di marketing che portò dapprima lo spagnolo a presiedere la panchina azzurra col mandato di succedere alle eroiche imprese europee degli indomiti contropiedisti di Walter Mazzarri si sarebbe consolidata successivamente con l’arrivo dell’allenatore dei campioni ( o del campione degli allenatori) Carlo Ancelotti. Che questa strategia abbia condotto anche Antonio Conte all’ombra del Vesuvio poco importa e sarà il tempo a stabilire la portata e la correttezza di tale fenomeno.
Maurizio Sarri ereditò non solo la corona di un grande nome e la delusione di una tifoseria che aveva cominciato ad assaporare il gusto della vittoria, ma raccolse una rosa ricostruita e arricchita di calciatori di grande calibro, primo fra tutti El pipita Gonzalo Higuaìn. Né il ritorno nella massima Serie dell’Empoli né la sconfitta per 4-2 al “Castellani” destarono i sostenitori del Napoli dal proprio scetticismo corroborato dalla sconfitta all’esordio contro il Sassuolo. Mentre i cori invocavano il suo addio, Sarri si preparò allo spettacolo. Allo stadio San Paolo il Napoli diede prova di sé e inflisse una sconfitta di cinque reti alla Lazio con doppietta del numero 9 argentino e i goal di Allan, Insigne e Gabbiadini. La filosofia del sarrismo si stava addentrando nello spirito dei calciatori e nel carattere della squadra. Il saldo possesso del pallone, la distribuzione del gioco scandita in massimo due tocchi, la sovrapposizione dei terzini nel 4-3-3, la costruzione dal basso affidata ad un portiere abile con gli scarpini quale Pepe Reina e la pertinace manovra offensiva valsero al Napoli in poche gare i successi nei grandi scontri diretti contro Juventus (2-1), Milan (0-4), Inter (2-1). La stagione 2015-16 marcò a fuoco il nel panorama italiano il segno di un’estetica di gioco tutta partenopea, ammaliante e sontuosa, elegante e prepotente. Essa fruttò alla squadra il record storico di punti accumulati nella massima Serie e si concluse con l’iconografia atletica e allegorica di una sforbiciata che valeva 36 goal: il centravanti erede per i suoi natali del Pibe de oro sollevò il suo nome sopra quelli dei grandi attaccanti e rese fiero un popolo del suo primato.
Tuttavia, la macchina perfetta assemblata e innescata da Maurizio Sarri rivelò surrettiziamente un arcano che sarebbe stato compreso solo al crollo della sua struttura. Il pegno di un gioco così brillante, spumeggiante ed estroso, insomma il prezzo pagato per la bellezza fu la fatalità. Il Napoli si scontrò contro la titanica Juventus, la vecchia signora che mai avrebbe concesso il soprasso prima del suo disfacimento a seguito del nono scudo del 2020 – l’ironia della sorte volle proprio che fosse sotto la guida del tecnico toscano – sancendo la sua longeva e incontrastabile egemonia.
La stagione successiva si aprì con gli occhi grondanti di lacrime e la lingua serpeggiante di rabbia per la tifoseria azzurra, giacché l’eroe argentino “tradì” la maglia e la città per indossare la divisa bianconera. La Juventus pagò la clausola rescissoria e portò Gonzalo Higuaìn a Torino. La resa dei conti tra gli amanti divorziati giunse definitivamente il cinque Aprile, quando El pipita lasciò sprofondare il San Paolo in un assordante silenzio sotto la sua provvidenziale doppietta e con il pallone sotto il braccio e il dito puntato sulla tribuna rimbalzò la responsabilità del suo trasferimento e l’astio collettivo contro Aurelio De Laurentiis: «Ѐ colpa tua!». Al polacco Arkadiusz Milik spettò l’onere di riempire il vuoto lasciato nel reparto offensivo. Il centroavanti scuola Ajax per il quale il patron azzurrò investì 33 milioni di euro dimostrò subito di poter ottemperare alla sua missione, ma ciò che la volontà si prospettava di ottenere dové ben presto arrestarsi alle fragilità del corpo. Milik subì presto il primo lungo infortunio, una rottura del crociato anteriore destro rimediata in una partita con la Nazionale che lo trascinò lontano dai campi da calcio per circa quattro mesi.
Fu allora che Maurizio Sarri, spinto più da necessità che da virtù, fu colto dal baleno che incendiò il Napoli e lo fece brillare di luce stellare. In assenza di un attaccante di razza il tecnico toscano chiamò all’attenti l’esterno Dries Mertens e lo improvvisò falso 9. La classe, l’intelligenza calcistica e la spregiudicatezza offensiva del calciatore belga rimediarono ai danni della struttura e aggiunsero una vena istrionica allo spettacolo calcistico, mentre la linea aerea che da Insigne raggiungeva la sponda opposta con meta Callejon sopperì con l’aiuto del centrocampo a trovare vie alternative alla stazza consueta del centroavanti. Il Napoli propose questo assetto in Europa rendendosi protagonista indiscusso di un girone alla portata del suo livello. Il Napoli superò in classifica Benfica, Besiktas e Dinamo Kiev; tuttavia, l’alea del sorteggio volle il Real Madrid avversario invincibile agli Ottavi e nonostante il goal straordinario in avvio di Insigne al “Bernabeu” i blancos ottennero un doppio successo per 3-1. La stagione 2016-17 vide il Napoli terzo classificato a cinque punti dalla Juventus e ad uno dalla Roma.
Come ogni buona storia l’epilogo raccoglie tutta la tensione degli sviluppi, così anche per il Napoli di Sarri l’anelito della trama sprofonda nella leggenda nel tentativo più audace di raggiungere le stelle. Ed ecco giungere la stagione maledetta, l’improbabile caso che realizza la remota probabilità matematica, la letteratura sconfitta dalla scienza numerica, perché mai nessuna squadra tanto nobile riuscì a mancare la sua gloria ottenendo 91 punti. I pulviscoli siderali di quel Napoli che fu la parabola stravagante e pilotata di Dries Mertens oltre le spalle di Strakosha, il tiro a giro di Lorenzo Insigne, le composizioni geometriche di Jorginho, il colpo di testa di Kalidou Koulibaly che fendette la rete di Gianluigi Buffon al 90° sotto gli spettatori increduli dell’Allianz Stadium di Torino che sollevò un popolo in piedi prima che cadesse nell’oblio insieme alla sua squadra nei meandri dell’albergo fiorentino (come ormai si racconta); ecco quella polvere di stelle è la parvenza di una favola che mai fu, ma che proprio per questo acquista un valore aggiunto. Il Napoli di Sarri è stato senza dubbio la forma più coerente di calcio per la città partenopea, un calcio meraviglioso, grande e infine conquistato e deturpato, una rivoluzione senza armi che arse intensa e vigorosa fino a consumarsi. I sogni furono più grandi delle aspettative e proprio come la pena infernale di Tantalo, costretto ad avvicinarsi all’acqua senza mai poterne bere, il Napoli più bello dell’era De Laurentiis si vide re allo specchio senza poter mai posare sul suo capo la corona.
Foto: profilo Twitter SSC Napoli.