Pillole di Calcio – Il caso di Italia-Argentina del ’90. Quando il tifo va oltre i confini del proprio Paese

Nel girono in cui la fase a girone dei Mondiali arriva al dunque, con ogni partita a portare con sé un carico di significato e il peso di una qualificazione in bilico, viene spontanea una domanda. Come sta andando la squadra che avete adottato? La pratica del chiodo straniero che scaccia il chiodo fisso dell’assenza italiana è assai diffusa, specie se le nazionali che attraggono le simpatie del tifoso neutro sono quelle in cui militano gli idoli del proprio club. A proposito, una menzione particolare va a Piotr Zielinski e a Boulaye Dia che hanno messo a segno i primi gol “campani” di questo Mondiale. Il fantasista del Napoli ha sbloccato una partita molto delicata che la sua Polonia ha vinto contro la sorprendente Arabia Saudita, mentre l’attaccante della Salernitana – l’unico rappresentante in Qatar della squadra di Davide Nicola – è stato protagonista nella bella vittoria del suo Senegal sui padroni di casa, appunto, del Qatar. Ci sono infiniti criteri che spingono un tifoso ad esprimere la sua simpatia per una squadra piuttosto che per un’altra, in una competizione che non vede gareggiare o primeggiare la sua squadra del cuore. Qual è la prima nazionale, ad esempio, che potrebbero aver adottato i napoletani? Alzi la mano chi non ha pensato subito all’Argentina. Una Buenos Aires dipinta di azzurro o una Napoli colorata di bianco e di celeste, non cambia molto, perché ad azzerare le differenze tra questi due popoli è stato un argentino di un povero villaggio, l’unico politico, ad oggi, ad aver costruito un ponte sul mare anzi, sull’Oceano: Diego Armando Maradona.

Quello di Qatar 2022 sarà ricordato come il primo Mondiale senza El Pibe de Oro, tra le altre cose in pieno svolgimento nel giorno del secondo anniversario della sua scomparsa. Il valore di questa assenza e, in generale, della mistica di Diego ha impattato, e non poco, sul gruppo dei calciatori dell’Argentina. La Nazionale, guidata in panchina da Lionel Scaloni e, in campo, da Lionel Messi, si è compattata attorno al suo attuale dies, nel segno dell’eterno dies Maradona, e ha preso a vincere, prima una storica Coppa America contro i rivali eterni del Brasile e poi la Finalissima contro l’Italia, presentandosi al Mondiale con i crismi di chi ha il vento e, forse, gli dèi del calcio, dalla sua parte. Le prime due partite del girone hanno, invece, raccontato ben altro, vale a dire di una squadra con un’ansia da prestazione mondiale e una pesantezza nelle gambe impronosticabili alla vigilia. Sta di fatto che la Selecciòn è uscita sconfitta in malo modo dalla partita contro l’Arabia Saudita per poi vincere a fatica contro un comunque rinunciatario Messico del Chuky Lozano e che, quindi, si giocherà domani sera il passaggio del turno contro Zielinski e Lewandowski. L’Argentina arriva a questa sfida con tre punti e, con il ghiaccio rotto dal suo fuoriclasse Messi, autore del gol dell’1 a 0 nella sfida di sabato contro il Messico. Un gol che è stato accompagnato dal racconto dei cronisti di tutto il mondo, anche italiani, che non hanno trattenuto l’entusiasmo, la passione e la follia, dinanzi ad un gesto, quello del gol, appunto, che potremmo definire catartico. Sentimenti, questi, che hanno una storia lontana, ancestrale, che vanno al di là del semplice schierarsi al fianco di una squadra piuttosto che di un’altra, oppure del semplice racconto distaccato dello svolgimento di un’azione di gioco.
Appunto, il gioco. Ma il calcio è solo un gioco, da ridurre a regole, schemi, etichette e convenevoli, sia per chi svolge la professione di atleta che di commentatore delle gesta in campo? No. Il calcio è una particolare declinazione della storia dell’essere umano. Essere umano che, in tempi assai recenti, ha scoperto/inventato una cosa nuova e rivoluzionaria, alla pari del fuoco, della ruota, della scrittura, vale a dire la palla e con essa il calcio. Non è finita, perché quegli uomini, con i loro palloni e il loro calcio, nell’emigrare – come i primi uomini durante le glaciazioni – hanno raggiunto il Sud America e lì, la palla è diventata pelota e il calcio fùtbol. Qual è la differenza? Che nell’approcciarsi a questa pratica nuova del pallone fatto rotolare col piede, gli autoctoni latino-americani le hanno conferito un valore tutto nuovo a cui gli inventori inglesi non avevano pensato: l’amore. L’amore per il calcio nasce lì, tra le distese del grande corno Sudamericano, nelle foreste dell’Amazzonia, tra gli indigeni, sulle rive dei fiumi, laddove il calcio non è dopolavoro, non è frivolo, non è dei padroni. È tutto ed è di tutti.
Chi, nel suo personale Mondiale, ha adottato l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay ma anche l’Ecuador o una squadra africana, seppur all’insaputa, ha investito la sua attenzione, il suo gradimento, non su una semplice squadra, ma su un modo di vivere, su una cultura autentica che induce a pensare a questo sport come sovra-struttura – e quindi come insieme di ideologie, fenomeni culturali e spirituali – allontanandosi il più possibile dalle strutture economiche, dallo spettro dei padroni e dei loro seguaci poco appassionati.
Questa visione del mondo, a Napoli – ed è bene sempre ribadirlo – l’ha portata quel profeta rivoluzionario di Dego Armando Maradona, perché il calcio guida ma è anche uno dei veicoli più potenti per trasmettere messaggi o per dispensare insegnamenti. Poi, se sei il miglior calciatore del mondo, se la gente si affida ciecamente a te, sin dal primo giorno, e se tu la ripaghi ogni domenica dando tutto te stesso, due scudetti e una Coppa UEFA, diventa tutto più facile. Ecco perché Napoli rappresenta quell’emanazione del Sud America tale per cui il calcio è una fede e la palla è il simbolo di qualcosa di irrazionale, che non si può spiegare.

Ecco perché, probabilmente, Napoli rappresenta anche il Triangolo delle Bermuda dove si è infranto il sogno mondiale di Italia ’90 per la Nazionale azzurra di CT Azeglio Vicini. La città di Napoli e il suo, allora, stadio San Paolo, furono il teatro della semifinale dei Mondiali, che vide la lanciatissima Italia di Baggio, Schillaci e dei campioni d’Italia Ciro Ferrara, Nando De Napoli e Andrea Carnevale, affrontare l’Argentina campione del mondo in carica, ma assai claudicante, del Pibe de Oro Maradona.
Il clima delle Notti magiche che aveva spinto l’Italia tra le prime quattro squadre del mondo, nel corso di tutte le sfide disputate allo stadio Olimpico di Roma non fu, tuttavia, avvertito a Napoli perché quello era, ed è tutt’ora, il tabernacolo del dios Maradona. Soprattutto, Napoli è e rimane anche la casa di tanta gente orgogliosa, troppo spesso vessata da giudizi razzisti di molti italiani. Non si può certo dire che Diego non abbia cavalcato l’onda di questa brutta dialettica tra Napoli e resto d’Italia, d’altronde per lui, una buona fetta di italiani, che per una stagione intera aveva ingiuriato pesantemente un popolo che si avviava a festeggiare il secondo scudetto, non era degna di sedere sugli spalti dello stadio di quel popolo considerato “nemico” o peggio ancora “inferiore”. «Non voglio dividere nessuno. Dico le cose come stanno. Chi vuole nasconderle, le nasconda. Io non lo farò. Sono sei anni che vivo in Italia e sto dicendo quello che ho visto in sei anni. Io credo che gli Italiani tiferanno Totò (Schillaci) ma credo che noi napoletani sapremo essere maturi e non fischieremo l’inno come successo a Milano e a Torino». Come a dire, quasi: “Cari napoletani, io giocherò contro l’Italia da napoletano come voi. Mi aspetto, però, che voi sappiate essere tanto maturi quanto lo sono io e che facciate lo stesso!”. Quelle arringhe di Diego, da grande uomo del popolo qual era, destabilizzarono non poco l’ambiente e la nazionale di Vicini. Lo stadio San Paolo dimostrò di sapersi riscaldare per i colori Azzurri dell’Italia, ma soltanto a cose fatte, cioè dopo il gol di Schillaci. Tutte le altre emozioni della gara, vale a dire il rocambolesco gol del pareggio di Claudio Caniggia e la lotteria dei rigori che premiò l’Argentina, furono accompagnate, tutto sommato, da una riverenza per Diego e i suoi uomini, che quasi vinsero quella partita giocando in casa. Al contrario, in tutte le altre spedizioni di quel Mondiale, l’Albiceleste fu sommersa dai fischi, compreso in occasione della finale di Roma, che l’Argentina perse contro la Germania a causa del fischio più doloroso, quello dell’arbitro Codesal Méndez per un rigore che non c’era, poi segnato da Andreas Brehme.

Non è possibile fare una stima di quanti italiani, effettivamente, in quella strana notte dell’estete del ’90, tifassero Argentina, di quanti i colori azzurri e di quanti, invece, fossero lì solo per ammirare e, quindi, tifare, Maradona. Certo è che la natura di quel clima strano fu determinata da quelle stesse tendenze che alimentano ancora oggi la vita del tifoso napoletano: il fuoco della passione, dell’amore per un calcio vero – che non ha nulla a che vedere con assurde speculazioni su soldi, ranghi o caste – e il bello. È evidente che, prima di identificarsi come italiani, molti preferirono identificarsi con questi valori, che sono stati sì diffusi dalla bandiera tricolore ma forse mai quanto quella di Diego.

Fonte foto: pagina ufficiale Twitter Selecciòn Argentina